STELLA DEL NORD
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PARTE: 18/18

AUTORE: Dhely

SERIE: Xmen con notevoli variazioni sul tema. Spero che tutto sia sufficientemente comprensibile anche a chi non ha mai seguito i fumetti


RATING: questo capitolo non è un gran chè… solo quel pizzichino di angst che non posso non metterci!

NOTE: i pg non sono miei ma li amo tutti, uno per uno,  anche se appartengono alla perfidissima signora Marvel - la quale, ovviamente, non mi passa mezzo cent. per scrivere questa roba-. I pairing, le coppie, il passato di questi tizi è stato manipolato e/o mezzo inventato per riuscire a tirare in piedi una trama decente, anche se ho cercato di non cambiare troppo 'cio' che è stato'.

NOTE 2: chiunque abbia bisogno di maggiori informazioni sui pg trattati in questa fic, può tranquillamente chiedere a me, o consultare uno dei tremila siti di continuità Marvel per comprendere che è tutto un gran casino e che è forse meglio chiedere a *me* così vi dico solo le cose che potrebbero essere utili per capire di *chi* sto parlando! (adoro essere modesta.)

 

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Occhi.

 

Occhi bellissimi, che non avrebbe mai potuto dimenticare. Il volto, il suo muoversi. Le sue espressioni. E quegli istanti rari, improvvisi come il sole che squarcia le nubi durante un temporale. C’era una fascinazione strana, incredibile, nascosta in quel corpo scolpito come quello di una statua greca. C’era una profondità inaccessibile che si nascondeva dietro quelle ciglia, sul fondo di quelle schegge di ozono e ghiaccio che erano i suoi occhi.

 

Qualcosa di alieno, di irraggiungibile. Di diverso, senza scampo.

 

Lontano.

 

Jean Paul lo guardava e lo vedeva.

 

Vedeva se stesso e Pietro, due poli opposti di uno stesso magnete, uguali eppure opposti e che mai si sarebbero potuti congiungere. In parte era come guardarsi in uno specchio e vedere come sarebbe stato se il destino, il fato, la vita, fosse stata diversa.

 

Gli mancò il fiato e per un attimo cadde nello sguardo dolente, spalancato del Professor Xavier.

 

Il Professore. L’amico di Magneto, il suo confidente. Anni passati insieme, anni di sogni condivisi, da mete da raggiungere insieme, vite anni passati a combattersi, a respingersi, a rifiutare l’uno le scelte dell’altro… e lo vide, anche lui, polo unico di un qualcosa nata per essere bipolare. Vide il suo dolore, la sua solitudine.

 

Si sentì triste, per un attimo e comprese Charles.

 

Pietro assomigliava davvero così tanto a suo padre? Jean Paul non lo sapeva.  Aveva incontrato Magneto solo durante un paio di combattimenti, ma le cose che rendono simili le persone non sono i tratti fisici. Non solo, almeno.

 

Che dire, ora, che tutto finiva prima che fosse mai iniziata?

 

L’idea di Charles divenne un grumo dolente sul fondo della sua mente.

 

Però ora poteva rispondere a quella domanda che gli era stata posta al suo arrivo lì.

 

Sì.

 

Sì, Jean Paul era stato innamorato.

 

Strinse la mano di Pietro con noncuranza, un sorriso indifferente sul viso: non serviva altro. Un suo collega veniva trasferito ad altri incarichi, non era qualcosa di drammatico o stupefacente.

 

Sì. Jean Paul che era sempre stato innamorato solo di sé stesso ora si era innamorato di qualcuno che poteva essere il suo perfetto negativo. E lo guardava andarsene senza dire nulla, senza fare nulla, che non si poteva né dire né fare nulla.

 

Non c’erano carezze o frasi sussurrate, non c’erano baci o risate da ricordare. Solo alcuni sguardi, solo alcuni istanti in cui, gli era parso, che le molte difese erte da Pietro intorno alla sua stessa anima fossero divenute traslucide al suo sguardo, e avesse potuto vedere dentro. Il suo cuore, la sua anima.

 

Era un grado di intimità che a ben pochi, Pietro, aveva permesso di raggiungere. A lui sì.

 

Se la cosa aveva un qualche senso, ora quel significato scoloriva nella sofferenza, affogando nella malinconia dell’abbandono di chi aveva sempre vissuto la sua vita come se fosse alla finestra, come se nulla di quello che capitava potesse toccarlo davvero. Come se lui fosse diverso, come se lui non ce l’avesse un cuore, come se…

 

Vedeva Pietro, vedeva la sua luce e le sue ombre e Jean Paul si accorse che quella era una possibilità che gli veniva data: poteva diventare identico a quell’uomo freddo nascosto dietro strati e strati di forza cristallizzata, al punto di negare perfino se stesso. Oppure… oppure poteva essere differente. E non sapeva se esserlo sarebbe stato un bene o un male. Essere solo sé stesso.

 

Nonostante Pietro fosse così meraviglioso.

 

Così forte.

 

Così inavvicinabile.

 

Lui *non* era Pietro. Non era come lui. Forse c’era una strada tracciata proprio per lui. Per un ‘lui’ che non aveva ancora visto la luce. E forse… e forse ne valeva la pena, provarci.

 

Charles strinse la mano di Pietro con un sorriso pallido.

 

“Sarai sempre il benvenuto, qui.”

 

“Grazie.”

 

Jean Paul prese un respiro dolente, nei polmoni, che faceva male. Il domani sarebbe stato il suo domani. E non sapeva perché tutti quei pensieri erano nati proprio in quel momento, che senso avessero o che…

 

Pietro non si voltò più.

 

Charles appuntò lo sguardo verso di lui. Qualcosa di indecifrabile gli solcava il viso.

 

Jean Paul annuì.

 

“Sì. – sussurrò a se stesso – So cosa vuol dire essere innamorato.”

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Robert era molto carino, quella sera.

 

Robert era *sempre* carino, a dire il vero, ma in quella versione era…  rideva piano, quasi sottovoce, dietro il tavolaccio di legno grezzo. Una birra fra le mani con cui giocare appena mentre Logan gli diceva chissà cosa.

 

Quel pub fumoso non era un posto chic, o tantomeno elegante. Era solo uno squallido postaccio sorto così vicino alla Scuola che gli XMen, fin da quando loro stessi erano solo dei ragazzini, non avevamo mai cessato di frequentare. Ed era una cosa così banale, a ben pensarci. Dei mutanti che avevano il ‘loro’ bar sottocasa, dove giocare a biliardo, farsi una bevuta, ascoltare un po’ di musica. Niente di strano o incredibile: erano solo dei ragazzi anche loro.

 

Robert, come gli altri, ci andava abbastanza spesso. Si sentivano tutti così a loro agio che non si facevano scrupoli a entrarci in tuta, o con le cose più assurde avessero nell’armadio. E quella sera, come sempre, sempre aveva addosso un paio di jeans un po’ sdruciti, una camicia stropicciata ed era pure appena spettinato.

 

Della birra che aveva ordinato ne aveva bevuto solo pochi sorsi, ma le sue guance erano già lievemente rosse e i suoi occhi brillavano… ma gli occhi di Robert brillavano sempre. Quando era felice. Quando rideva. Quando viveva nel modo unico e speciale in cui sapeva vivere lui.

 

L’eterno bambino sapeva soffrire, e aveva mostrato più di una volta di essere forte e in grado di affrontare il dolore. Era un cucciolo ma sapeva lottare con le unghie e i denti per ricominciare a sorridere, a vivere.

 

Robert era speciale.

 

Remy sentì il cuore stringersi in petto.

 

Era il *suo* Bobby.

 

Coraggio: Remy rise. Qualcuno credeva che il coraggio fosse combattere all’ultimo sangue, scommettere vita o morte su un giro alla roulette russa. Che fosse salvare il mondo da alieni che volevano conquistare il nostro pianeta, o pararsi di fronte al pazzo della settimana che voleva far saltare per aria ogni segno di civiltà.

 

No.

 

Per Remy quello non era mai valso niente. Lui era un giocatore: scommetteva e vinceva perché sapeva barare, ed era fortunato. Sapeva giocare con le parole come lo faceva con le carte e la verità era di una materia così plasmabile che sapeva assumere qualsiasi forma lui volesse.

 

Aveva ragione quel dannato canadese. Il coraggio era essere sinceri. Era fidarsi.

 

E lui non …

 

Scott gli batté una mano sulla spalla con fare conciliante. Un sorriso tirato che voleva dire mille cose  per quel ragazzo troppo serio che, da sempre li riportava indietro vivi da qualunque missione.

 

“Hai intenzione di stare qui in piedi ancora per molto?”

 

Remy finse una leggera noncuranza che non provava.

 

“Ma vi siete tutti messi d’accordo stasera?”

 

Scott, inaspettatamente, annuì.

 

“Certo che sì. Sembra che Jean Paul sia proprio in gamba ad organizzare.”

 

“Organizzare cosa?”

 

Scott si strinse nelle spalle.

 

“Non devi parlare con qualcuno di più interessante di me?”

 

Parlare.

 

Parlare non era mostrarsi affascinante, attraente, parlare, ora non era abbagliare chi gli stava accanto con sorrisi scintillanti e frasi sibilline. Non era avvolgere il suo prossimo in azione e promesse da marinaio che mai avrebbe potuto mantenere, e che mai nessuno si aspettava l’avrebbe fatto.

 

Era sedersi di fronte a Bobby e guardarlo negli occhi e dirgli.. dirglielo.

 

La verità

 

Esporsi.

 

E che poi durasse un secondo o una vita non poteva importare. Che fosse per sempre o che dopo una settimana fossero entrambi già stanchi non era colpa di Remy. Remy non ci poteva fare niente. Lui poteva solo…

 

prendere un respiro…

 

e parlare.

 

E strapparsi dal cuore, dalle ossa tutto il coraggio che possedeva e aprirsi il costato e tacere, lasciando che i suoi occhi guardassero e vedessero, perché non c’era bisogno di contorno a quello spettacolo. Pronto a non essere compreso, pronto ad essere deriso. Pronto ad essere rifiutato.

 

E accettare la propria debolezza, pria di mostrarla, esserne consapevole prima di esporla. E la paura. E il domani che è solo una parola vuota di senso se non si vive secondo un progetto che la propria anima approva.

 

Questo era quello che gli aveva insegnato quel matto d’un canadese. Jean Paul: Logan l’avena messo in guardia, gliel’aveva detto che era in grado di prendergli il cuore fra le mani e farlo a pezzi, ma lui non aveva capito in *questo modo*. Lui aveva creduto…

 

Gli occhi nocciola di Bobby si riempirono di strane ombre liquide quando si posarono su di lui ma non disse nulla. Logan sorrise e gli lasciò il posto, come se fosse tutto combinato. Se lo era o no, in quel momento non importava.

 

Bobby lo guardava e null’altro, in silenzio, dietro a un bancone. Niente odio in quegli occhi, niente ripicche. Solo … solo Bobby.

 

Remy si schiarì la voce.

 

“Non è  facile.

 

“Non lo è.”

 

Entrambi videro il sorriso di Jean Paul: ‘vivere non è mai facile. Se vuoi una cosa facile non vivere.’

 

Non vivere: mentire.

 

Non vivere: desiderare.

 

Non vivere: non amare.

 

Facile.

 

Ma a volta c’è qualcosa per cui vale la pena correre un rischio. Per cui vale la pena buttare a monte tutto il lento costruire il proprio castello di carte, durato una vita, protetto dagli spifferi e dai giochi crudeli. Non spesso, ma ogni tanto accade, di trovare un diamante nella polvere che ci sporca la casa.

 

Di vedere un sorriso che risponde al nostro.

 

E per quel sorriso essere pronti a fare di tutto.

 

Remy cercò di sorridere allungando una mano. Bobby lo lasciò prendergli la mano fra le sue.

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Silenzio.

 

Vuoto dentro. Un vuoto che avrebbe voluto ci fosse anche fuori.

 

Non c’era.

 

C’era Logan e la sua presenza forte e saggia, profonda. C’era Logan e l’odore del suo sigaro che impestava l’aria. C’era Logan e l’odore del passato che aveva appiccicato addosso.

 

C’era lui e Logan, come sempre.

 

E c’era silenzio.

 

E c’era la consapevolezza che quella fosse il termine di un cammino che lui, lui stesso, inconsciamente, aveva percorso. Era lì per un motivo.

 

Un silenzio che non poteva durare. Che non voleva durasse.

 

“Allora?”

 

“Mi sento una merda.”

 

Un sorriso ferino.

 

“Facile fare i sermoni dal pulpito, eh, Jean Paul? Metterli in pratica è un’altra cosa.”

 

“Già. – nulla per un attimo ancora, per un lungo istante – L’ho lasciato andare.”

 

“Hai fatto bene: non era per te. Lo sai.”

 

“Lo so.”

 

E il saperlo era una coscienza forte, estrema. Jean Paul chiuse gli occhi: dimenticò di avere un corpo, un cuore, un animo, si spogliò di tutto quello che poteva togliersi di dosso: il suo presente, il suo passato. Ed era ancora lì, ed era ancora lui.

 

“Adesso?”

 

Aprì gli occhi. Vide le stelle, sentì l’aria a colpirgli il viso, i rumori che venivano dal pub. La figura di Logan a un passo da lui. Sentì il suo corpo e il dolore all’altezza del cuore. Sentì la sofferenza di averlo lasciato andare e lui, lui stesso, che era *quel* presente, che era *quel* passato. ‘Niente giochi’ aveva detto a Remy: neppure a lui ne rimanevano altri. Lì, solo vivere la sua vita, e decidere di essa, scegliere se cambiarla o meno. Consapevolezza. Dolore. E forse … e forse gioia, a volte, in piccoli sprazzi dorati.

 

Si infilò le mani in tasca.

 

“Adesso? Adesso c’è la vita da vivere.”

 

“Abbastanza, direi.”

 

“Sì, abbastanza.”

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FINE