Nota: Eccovi il secodo prodotto letterario di un insolito gruppetto... in ordine di apparizione, me, Fiorediloto (prologo e racconto della debolezza), Elisa (non la conoscete, ma la stiamo adeguatamente yaoizzando, e forse tra un po' sarà dei nostri - racconto dell'intemperanza), Saidy (racconto dell'incoscienza), Scilla (racconto dell'ingiustizia).
É un progetto di racconto a cornice, appunto, ambientato in una cella parigina del periodo pre-rivoluzionario. É lungo e un po' straziante, ma personalmente lo trovo bello. A voi!
ps. trovate il filo logico che lega i quattro racconti e vincete un calendario con le foto di noi quattro vestite da neopet rigorosamente in versione bebè!! ^_____^
pps. questo è dedicato ad Anthos che ci ha aiutato con i riferimenti storici e parigini!!

 


Salle de force

Il racconto della debolezza

di Fiorediloto

 

Quel giorno, l’ultimo, le mie mani non volevano saperne di smettere di tremare. E certo, mon ami, poi i fatti avrebbero dato loro ragione. Avrei capito che facevano bene a tremare, loro, e che io, solo io, povero stolto, mi appellavo alla calma e al raziocinio. Mi sarei dovuto accorgere che il mio corpo presagiva gli eventi meglio di me.
Ma comunque. Quel giorno Eugène e gli altri erano agitati e febbrili come mai da quando li conoscevamo, da tutta la vita, insomma. Non facevano che aggirarsi per la saletta da pranzo di casa mia come bestie in gabbia, e consultare a più riprese gli orologi, e sbuffare tra i denti. Casa mia, pareti ingiallite dalla muffa e l’odore caratteristico di tutte le case in cui si può sempre fare ritorno…
Gliel’avevo offerta come quartier generale, io, la vipera, la serpe, avevo detto a Eugène: «Possiamo fare qui, è la più vicina, facciamo qui», ed Eugène mi aveva abbracciato e aveva detto: «Sei dei nostri!», ed io l’avevo abbracciato e avevo risposto: «Avevi qualche dubbio?».
E tu sulle scale, mon ami, a contemplare il nostro abbraccio da fratelli, un bel sorriso radioso sulle labbra. Ti guardai e mi sentii morire. Io, la vipera, la serpe. E non lo sapevi che quel fratello stavo per azzannarlo alla gola.
Poi calò la notte, quando ancora notte e giorno per me erano cose distinte, e Simon e Daniel vennero a casa nostra. Eugène, ch’era già lì, fu rapido a chiudere la porta. Dispiegò sul tavolo la mappa, come il più collaudato dei cospiratori, e l’ora seguente passò con una rapidità che il tempo moribondo di questa cella non conoscerà mai.
Uscirono, e noi rimanemmo soli.
Passò un’altra ora, e tu, mon ami, cominciasti a capire che qualcosa non andava. Mi tirasti per una manica perché non ti guardavo, cominciasti a gesticolare furiosamente che insomma, che stavamo aspettando? Toccava a noi, adesso, dovevamo andare subito!
Io ti strinsi i polsi e ti condussi a una sedia. Ti costrinsi a sedere.
«Étienne…»
Che diavolo stiamo facendo ancora qui?
Étienne, noi non andremo da nessuna parte, ti dissi a gesti, lentamente, come se le mani mi pesassero nel comunicarti la verità.
Che vuol dire?
Étienne, dimenticali. Dimenticali. Sono perduti.
Che vuol dire?, interrogasti ancora, spalancando gli occhi.
Sono perduti, Étienne…
Poi cominciasti a capire, e ti leggevo negli occhi che non volevi crederlo, ma che già lo sapevi. Che ero io la vipera, la serpe.
Non puoi averlo fatto…
Cospiratori, Étienne, erano cospiratori… dovevo farlo…
Sono i nostri amici!
Cospiratori…
Non te lo dissi, allora, il motivo per cui l’avevo fatto. Non ce ne fu il tempo. Tu scappasti come posseduto da un demone, corresti in strada e poi via, verso la Bastiglia, a piedi anche se la strada era infinita, posseduto, mon ami, posseduto, rubasti un cavallo e poi al galoppo fino alla prigione. Li trovasti che ancora si dibattevano tra le baionette delle guardie cittadine, armati solo di un moschetto e di un pugnale a testa, e come un pazzo ti buttasti nella mischia.
E io dietro, ché ti avevo seguito, e come fare altrimenti, io che avevo fatto tutto questo solo per salvare te, per salvare te ti seguii nella lotta. L’ultimo ricordo di te, mon ami, è il tuo viso d’adolescente macchiato di rosso. Gridai. Poi il buio mi tolse i sensi.
Io lo so che sei vivo, mon ami. Se così non fosse, se non credessi questo, smetterei di pensarti, o la follia prenderebbe anche me. Io lo so che sei vivo. E solo ora trovo il modo e il tempo di spiegarti – di offrire una giustificazione al mio fratricidio.
Il giorno che Gervais fu catturato e gettato alla Bastiglia vennero a prendere anche me. E mi dissero chiaro, mon ami, che sapevano che Gervais era mio fratello di latte, e che in tutto quello che era successo avevo una parte anch’io.
E questo era vero. Gervais mi aveva trascinato con sé nella sua folle impresa, e insieme avevamo depredato quel carro di provviste destinate all’esercito. Lui non era riuscito a scappare – io sì. Ma questo lo sai, mon ami, non te lo nascosi. Tu ne eri fiero. Eri sempre fiero di me, qualsiasi cosa facessi.
Vennero a prendermi, insomma, e mi dissero che mi avrebbero preso e mandato senza complimenti alla Bastiglia, se non avessi deciso di collaborare. Collaborare?, ripetei. Capivo, oh se capivo. Fin troppo bene. Preso Gervais, il capo di tutti noi, erano ben certi che qualcuno si sarebbe mosso per liberarlo. E loro volevano sapere chi, come, quando. Mi garantivano l’impunità e la possibilità di andarmene fuori da Parigi per un po’.
E io ero un debole, mon ami, ma non così tanto da sputare sull’amicizia. Gonfiai i polmoni per rispondere che potevano sbattermi alla Bastiglia anche subito, che non li avrei traditi mai, che mi ammazzassero all’istante, se volevano! Poi saltò fuori il tuo nome.
E giù una gragnola di insulti mi venne sputata in faccia, perché lo sapevano, loro, sapevano tutto, loro, avevano il coltello dalla parte del manico, loro.
«Vorrà dire che ammazzeremo la tua puttana» fu la conclusione.
Un debole, mon ami. Non sono altro che questo. Un debole. E non provo per me che disprezzo. Ho domandato di te ogni giorno, da quando sono qui. Non ho ricevuto risposta. Ti spero alla Bastiglia, prigioniero ma vivo, poi mi guardo intorno e mi dico che forse la morte sarebbe un’alternativa più dolce.
Non lo so, mon ami, cosa mi sia rimasto. La mia debolezza mi tiene compagnia, il ricordo di ciò che ho fatto mi strappa la coscienza brano a brano. Il tuo pensiero mi conforta.
Buonanotte, mon amour.
 



Epilogo

Maël mi guarda senza capire perché il mio sguardo si sia fatto così vacuo. Contento?, gli ho domandato.
Ed egli, testardamente, mi risponde: «Sì». E anziché fuggire da me mi si accoccola contro il fianco, come sempre.
Come sempre. Questa non-vita della cella sta diventando una paurosa, quotidiana routine, e davvero non so quanto riuscirò a restare sano anch’io.
Impegnare il tempo. Impegnare la mente. Impegnare il cuore…
Credo che Maël sappia leggermi nel pensiero, perché d’improvviso ha alzato gli occhi verso di me, quasi percepisse la mia pena.
Che c’è?, gli domando.
«Il suo nome» mormora.
Étienne, rispondo.
Poi aggiunge parole che, come la prima volta, si disperdono prima di giungere al mio orecchio, si aggrappa agli stracci della mia camicia e appoggia le sue labbra sulle mie.
«Buonanotte, Mathieu.»
Lo stupore mi paralizza.
E lui già dorme quando trovo la forza di bisbigliare tra i denti: «Buonanotte, Maël».