Nota: Eccovi il secodo prodotto letterario di un insolito gruppetto... in ordine di apparizione, me, Fiorediloto (prologo e racconto della debolezza), Elisa (non la conoscete, ma la stiamo adeguatamente yaoizzando, e forse tra un po' sarà dei nostri - racconto dell'intemperanza), Saidy (racconto dell'incoscienza), Scilla (racconto dell'ingiustizia).
É un progetto di racconto a cornice, appunto, ambientato in una cella parigina del periodo pre-rivoluzionario. É lungo e un po' straziante, ma personalmente lo trovo bello. A voi!
ps. trovate il filo logico che lega i quattro racconti e vincete un calendario con le foto di noi quattro vestite da neopet rigorosamente in versione bebè!! ^_____^
pps. questo è dedicato ad Anthos che ci ha aiutato con i riferimenti storici e parigini!!

 


Salle de force

Il racconto dell’ingiustizia

di Scilla

 

Mi stanno chiedendo di raccontare la mia storia. Perché? Io sono solo un povero folle. Io mi chiamo Paris Malaussène. Sì, Pierre Malaussène. Oh… no, no. Ho sbagliato qualcosa. Io non mi chiamo Pierre. Mi chiamo Paris. Paris… Paris come? Mi sento confuso mentre questi uomini disgraziati mi guardano aspettando. Quello che si chiama Maël, poi, non lo sopporto. I sui occhi sanno di consunta pietà quando mi si posano addosso, e di qualcos’altro che non posso interpretare. Se scoprissi cos’è… se scoprissi cos’è… sarebbe la fine. E cosa sarebbe del povero Paris Malaussène? Io sono Paris Malaussène! Già. Sono in carcere perché sono Paris Malaussène e sconto la pena a lui comminata. Confesso che per un attimo l’avevo dimenticato. Ma quegli occhi castani possono portare via Paris. Possono. Possono benissimo. E non devo permetterlo. E poi, una storia. Perché chiedono proprio a me una storia? Io non conosco storie. Io sono pazzo. Ho paura anche dell’acqua, io. Io. Io. Io.
«Mi chiamo Pierre Sinclaire. Mio padre è un ricco commerciante di stoffe. Mia madre morì dando alla luce la mia seconda sorella minore, Marie.» È la mia voce che ha parlato? È come se non l’avessi mai sentita. Roca, affannata. Fluisce via senza controllo.
Pierre Sinclaire. Pierre Sinclaire. Pierre. Pierre. Pierre.
All’improvviso ricordo, ed è come se nella mia testa si fosse dischiuso un sole caldo e luminoso.
Non sono mai stato così lucido in vita mia, qui, mai come in queste luride carceri fuori Parigi. Sento gli odori. Vedo i colori. Sento. Sono tornato padrone di me stesso, così, ad un tratto. Avevo addormentato la mia personalità per giocare con un’altra e alleviare il tormento del mio animo. Così.
Ma… Pierre. Che bel suono.
La sento ancora, la mia voce. E non è più un insieme di suoni incontrollabili, un’onda dell’oceano impossibile a fermarsi. È la mia coscienza ritrovata, è la mente che si affaccia sul mondo per la prima volta dopo tanti mesi. «Tuttavia, questa non è solo la storia di Pierre Sinclaire, bravo e ubbidiente ragazzo di buona famiglia. Questa è anche la storia di Paris Malaussène, favorito della regina, grande amatore e uomo di virtù.» È la mia storia, finalmente. È la mia storia, ora lo ricordo. Ma potrei ancora dimenticarlo, vagare nei meandri della follia e di un amore insano ormai morto da tempo. Amore. Amore. Che sciocchezza, che illusione, che scempio di intelletti. E perché adesso sono qui, tra questi criminali, questi sprovveduti, questi uomini che non sanno vivere? Pierre, caro amico ritrovato, Pierre. Dimmi Pierre, non è un’ingiustizia? Noi che siamo innocenti, noi che siamo stati innamorati, noi che eravamo così fiduciosi nell’assoluta bontà di ogni nobile sentimento? Pierre. Pierre. Io sono Pierre, sì. Ma potrei dimenticarlo, di nuovo. E allora srotoliamo parole e suoni, ora che l’accesso alle porte della memoria è libero. Perché non sappiamo quanto durerà, non sappiamo, e loro devono ricordare per me, per noi. Loro devono ricordare per Pierre. E allora, su, che si racconti come tutta la follia del mondo mi appartenga.
Mi innamorai di Paris Malaussène nel salottino di casa sua. In un angolo ombroso della stanza, meditavo silenziose parole d’amore e venerazione mentre Lui spiegava alla luce sole la stoffa che mio padre mi aveva ordinato di consegnare. Era un articolo pregiato, la migliore seta che si potesse trovare in commercio, e i sottili filamenti violetti catturavano dentro di loro l’essenza della luce, mille riverberi sulle pareti e sul viso dell’ormai già amatissimo conte Malaussène. Che posò il rotolo di stoffa su un tavolino, mi guardò – io morii – e disse che era molto soddisfatto e che avrebbe pagato generosamente mio padre, al quale porgeva i suoi ringraziamenti. Poi mi congedò. Il ragazzo che lasciò la casa non era più Pierre, no. Pierre era rimasto in quell’angolo ombroso del salotto ad adorare per sempre il suo padrone. E perché lo scambio fosse equo, bisognava che il ragazzo che si avviava tremando verso casa avesse Malaussène, l’adorato Malaussène. Un uomo che non avrebbe mai potuto possedere. Lui però non era stupido, oh no. Perché la verità era ancora peggiore di qualsiasi demenza, perché ne era già innamorato – orrore estremo – e questo significava essere già del tutto folli. E quel ragazzo, il più folle di tutti gli innamorati, avrebbe portato il caro ricordo di Malaussène dentro di sé, nel suo corpo. Sarebbe diventato il più possibile lui. Quale gioia poter dire che il proprio amato vive in ogni tuo singolo gesto! E scoprire che di giorno in giorno lo specchio riflette sempre più la vostra immagine mescolata insieme! E Paris, il nome della nostra amata città, non era forse un appellativo stupendo a cui rispondere? Mio padre confermò il pensiero, e cioè che il conte fosse una persona fortemente ammirata e virtuosa, squisita, amabile. Adorava la musica. Inizia ad amarla anch’io, lanciandomi in slanci di entusiasta apprezzamento che mi rendevano ridicolo, io che avevo sempre considerato la musica noiosa e affatto attraente. Parlava tedesco e italiano. Che iniziassero allora gli studi! Li intrapresi con i migliori dei maestri, e mentre mutavo il mio abbigliamento – Malaussène vestiva sempre dei colori del rosso e del porpora – pensavo che fossero i colori dell’amore e ne gioivo.
E poi, giunse quella sera. Tornavo da alcune commissioni per mio padre e dalle lezioni di italiano, e mentre ripetevo tra me e me le ultime parole che avevo così faticosamente memorizzato (“padre” “madre” “signore” e “signora” “sole” “sera” “buon pomeriggio”) decisi di tagliare un po’ per la strada che andava sulla Senna. Non era affatto sicura e mio padre mi aveva praticamente vietato di passare di lì. Non che si trattasse solo di delinquenti e malintenzionati, no. Mio padre odiava tutto quello che non fosse solida e sicura terraferma, e non ne avevo mai capito il perché. Comunque, ne avrei fatto solo un piccolo tratto e poi, per la felicità del mio buon vecchio genitore, sarei tornato subito in vie più protette. La Senna puzzava terribilmente. Non ero mai riuscito ad abituarmi a quel suo tanfo, pur vivendo a Parigi praticamente da sempre. Camminavo velocemente e a testa china – buon pomeriggio, madre, padre – quando lo sentii. Un grido, un unico suono d’orrore e paura che si alzava stagliandosi contro il cielo scuro. Alzai istintivamente la testa. Paris Malaussène, l’adorato padrone del mio essere, stava strangolando davanti a me una prostituta. Un secondo corpo di donna in abiti discinti giaceva senza vita ai suoi piedi. Allora gridai. Gridai come un ossesso, come un uomo che vede morire davanti a sé la sua famiglia, il suo sogno più grande, senza poter fare nulla, nulla. Assolutamente nulla. Gridai così forte che qualcuno chiamò aiuto, tutto riecheggiava nelle mie orecchie, passi che correvano, le mie urla. Anche gli occhi di Paris, che adesso mi fissavano, sembravano urlare. Poco dopo vennero le guardie. Il mio adorato signore disse che quella lurida feccia (e mi indicò con un dito guantato) aveva ucciso le due donne, sicuro di potersi sbarazzare dei corpi gettandoli nel fiume. Confermai immediatamente, diversamente non mi avrebbero creduto. Mi arrestarono. Mio padre era disposto a pagare una grossa somma di denaro per la mia libertà, ma io mi ero già perduto nei recessi della più pura delle follie.
Io ero Paris Malaussène, sì, ero Paris Malaussène e strangolavo puttane. Di quale segreto ero venuto a sapere! Paris Malaussène strangolava puttane e aveva l’anima più nera della pece. E solo io, io lo sapevo. Mentre mi portavano via mi lasciavo dietro un corpo flaccido e privo di significato, avvolto in magnifiche vesti e dalle mani ancora portatrici di morte. Ci ero riuscito! Mi ero portato via Malaussène, il vero Malaussène, ero diventato il mio adorato. Cosa macchia di più un’anima se non un crimine efferato? E in questo, non possiamo noi vedere le vere venature di chi lo ha compiuto? Mi ero lasciato condannare di un crimine che non avevo commesso ma che ora sentivo mio di diritto. L’avrei custodito come un tesoro, avrei custodito la vera gretta essenza di un uomo di cui avevo amato solo un’illusione. Nello stesso istante in cui varcai la soglia di questa prigione, l’odore putrido di tutte le colpe mi investì facendomi quasi svenire. Quando mi ripresi in un pagliericcio fetido che sarebbe diventato il mio letto, capire e decidere furono un’unica cosa. La puzza veniva dalla colpa, e la colpa veniva secreta naturalmente dai pori della pelle, dalle piaghe dell’anima. Non potevo più tentare di pulirmi, neanche per sbaglio: quel poco che avevo catturato di Malaussène non era sufficiente per assicurarmi che quel crimine maledetto – la parte più vera di lui – restasse con quell’odore odioso su di me per sempre. Dovevo conservarlo. Dovevo conservare Malaussène, quello vero, quello che conoscevo solo io. Io, io. Io soltanto. Malaussène strangolava le puttane. Io scontavo la sua pena, io mi trovavo in una squallida prigione. Io. Col suo peccato stretto al petto come se fosse un bambino da cullare. Quello che lo rendeva vero. E allora, non potevo dire a buon diritto di essere Paris Malaussène? Chi più di me lo era? Nessuno! Perfino l’uomo che avevo lasciato fuori, a Parigi, quell’uomo che continuava a vivere tranquillamente tra balli di corte e pettegolezzi non era davvero Paris Malaussène. Solo io, io che possedevo il suo segreto, lo ero!
Che gioia immensa che provai allora, stupido folle che cercava di consolarsi dell’ingiustizia di un amore quanto mai inesistente. Esaltazione, eccitazione, voglia di gridare forte. Urlare. Piangere.

Finisco, mi sento la gola secca. Nessuno parla per un lungo momento. Adesso anche loro sanno che il povero biondino folle si chiama Pierre Sinclaire. Adesso loro sanno e potranno ricordare. Ricordare quell’essere che sono stato, due in uno, per otto lunghi mesi. Pierre e Paris. Paris e Pierre. Insieme, indissolubilmente legati. Fino ad oggi. Adesso e mai più.
Allungo la mano sulla scodella piena di acqua che qualcuno ha miracolosamente conservato e la sollevo sopra di me. S’infurieranno per questo spreco, forse mi ammazzeranno. Un ghigno. Ho finito la mia storia. E mentre l’acqua mi si rovescia sopra la testa, lavandomi, penso. Adesso e mai più.


Terzo intermezzo

Restiamo attoniti a contemplare l’acqua che scivola in lenti rivoli lungo la faccia, il collo, il corpo di Paris… Pierre. L’acqua scava canaletti puliti nel suo viso lordo, solo adesso scopriamo quanto. E mentre Maël ed io restiamo in silenzio, padre Robert strappa la scodella di coccio dalle sue mani e fa per dargliela in testa.
«Idiota! Che diavolo t’è saltato in mente? E ora cosa beviamo, eh? Eh?»
Fermo il suo braccio con uno scatto improvviso, non progettato, e lo sforzo di tendermi avanti dopo tanta immobilità mi strappa un ansimo lieve, stretto tra i denti.
Con la mano libera traccio dei segni nell’aria.
«Dice… dice di non provarci più» mormora Maël. «E che… la prossima volta… No, Mathieu, smettila…»
Ripeto, ferocemente.
«… la prossima volta… vi ammazza, padre…»
Padre Robert mi scruta con disprezzo, poi si fa indietro. I trent’anni che ci separano non gli permettono di tenermi testa, ma non permettono neppure a me di prestar fede alla minaccia. Non alzerei le mani su un vecchio, ma che lui non tocchi Pierre.
Il pazzo, o forse non più tale, è il più smarrito di tutti. È rimasto a fissare con stolida curiosità la scodella che si alzava contro il suo viso, poi, troppo tardi, si è parato con le braccia. E così è rimasto, tremante, anche ora che il pericolo è passato.
«Paris? Pierre?» La voce di Maël si leva più sicura, ora che Paris sembra aver riacquistato la ragione. Gli striscia accanto, apre a forza il nido delle sue braccia. «Pierre.»
L’altro lo guarda sinceramente sorpreso. Farfuglia qualcosa. Non è il delirio di un pazzo, ma una sequela di parole disordinate dall’emozione. Si ferma, ripete più lentamente e nel giusto ordine.
È Maël ad occuparsi di lui nelle ore che passano. Parlano a voce bassa, fittamente, Pierre domanda e Maël risponde. Maël è molto concentrato e più tranquillo del solito.
Impegnare il tempo in qualche modo, mon ami. È sufficiente a tenerci in vita, almeno per un altro po’.
«Perché lui non parla?» Pierre indica me.
«Mathieu non parla» risponde Maël, imbarazzato, accorgendosi che li sto ascoltando.
Poi viene quel surrogato di notte che è l’ora di dormire, e Maël torna vicino a me.
«È lucido, adesso» mormora.
Annuisco.
«Vorrei sapere la tua storia, Mathieu.»
Non ti piacerebbe.
«Lascialo decidere a me. Io voglio saperla.»
Io non voglio che tu la sappia.
«Tu non ti fidi di me.»
Forse.
«Perché?»
Non è una bella storia.
«Io voglio saperla.»
Questo ragazzo mi farà impazzire, mon ami. Rapidamente, in pochi gesti frettolosi e brutali, riassumo la mia vita e la mia colpa. Gli occhi di Maël si sgranano, prima per la fatica di starmi dietro, poi per la comprensione di ciò che legge. Lascio ricadere le mani in grembo, stanco, non prima di tracciare un ultimo segno nell’aria.
Contento?
La risposta di Maël mi sorprende.