NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa. Gli unici che mi appartengono, e ne sono gelosissima, sono Antonio e Alex!

 

NOTA 2: tutta la teoria su ‘come si gioca a calcio’ e precisamente ‘come saltare sulle gambe di un avversario rompendogliele in almeno 3 punti senza farsi beccare dall’arbitro’ è puro frutto della mia fantasia. Non so se funziona, e se funzionasse, la cosa non vi consente di citarmi per danni morali o materiali a persone e/o cose! Inoltre: questa non è una fic che voglia instillare il desiderio di scendere in un campo da calcio con un mazza da baseball in mano, soprattutto se dall’altra parte del campo c’è la nazionale coreana (nord o sud è lo stesso, non sarete mica razzisti no?!). Soprattutto se in mezzo c’è pure un arbitro che io *non* nominerò.

 



La Tigre

parte XIII

di Dhely

 

Il viaggio di ritorno all’hotel fu una delle cose più sfiancanti che Mark riuscì a ricordare.

 

Per arrivare al pullman della squadra, fra flash di tifosi e grida di cronisti, gli parve il ripercorrere il suo personale inferno. Lasciarsi cadere al suo posto, poi, fu lancinante, con il ginocchio completamente intorpidito e i nervi e i muscoli di tutta la gamba in fiamme.

 

L’ultimo fallo che gli avevano fatto .. aveva creduto che gli avessero davvero rotto la caviglia, quegli idioti! Fortuna che il difensore non l’aveva preso sull’osso ma solo sul parastinchi, e male, perché se no, da là non si sarebbe più alzato.. idioti.

 

Maledì quel particolare difensore, di cui, in tutta sincerità, non ricordava neppure più il numero sulla maglia, e la squadra in generale, anche se erano stati allenati malissimo. Mark si ritrovò a sogghignare: gliel’aveva insegnato Antonio come fare un fallo fatto bene. Com’è che diceva quel matto d’un italiano?

 

I falli non si fanno, ma se si fanno è per rompere le gambe del tuo avversario, non per buttarlo a terra e farci prendere pure un rigore senza avere nulla in cambio.

 

E lui l’aveva imparato. Dannatamente bene. La prima e ultima volta che ci aveva provato aveva guadagnato tre giornate d’espulsione. E quell’altro sei mesi, tra gesso e riabilitazione e tutto quello che ne era seguito. C’era un angolo esatto con il quale entrare su un avversario, un modo preciso in cui tenere il piede, con il quale fare in modo che la collisione facesse saltare via, almeno spostare, il parastinco, e colpire la gamba con tutta la forza della rincorsa accumulata addosso. Senza muovere la coscia, senza spostare il ginocchio, senza dare l’impressione di dare un calcio, senza sembrare troppo ‘cattivo’, insomma, per poter dare la colpa al caso, o a un’eccessiva esuberanza.

 

Bha, ma per saper farlo, uno doveva avere classe, e da quando i coreani erano famosi per *quello*?! In effetti neppure lui era famoso per essere un giocatore *di classe*, ma il resto del mondo poteva pure tranquillamente a pensare quello che voleva. Non erano affari suoi.

 

Però i ‘fatti suoi’ era riuscire a rimettersi in piedi senza rompersi qualcosa né far venire a Danny un infarto lì sul colpo. Era stufo di sentirlo chiacchierare preoccupato sul suo ginocchio, sulla sua gamba, e cosa aveva detto il medico e bisognava fare le lastre e .. fortuna che Ed era sempre stato nei paraggi e aveva fatto del suo meglio per tenere uno lontano dall’altro.

 

Per quanto fosse possibile tenere lontane due persone che viaggiavano sullo stesso pullman, essendo, poi, uno dei due, Danny Mellow, la più appiccicosa, noiosa, preoccupata, ansiosa e ansiogena creatura che Mark avesse mai incontrato.

 

Era un pensiero crudele, Mark se ne accorse, ma fece appena in tempo a schiantarsi lungo tirato sul suo letto per scordarsi di tutto.

 

Non si sarebbe alzato da lì neppure se..

 

Uno squillo.

 

Mark socchiuse gli occhi, Ed, appena chiusa la porta della loro stanza alle sue spalle si guardò intorno con fare circospetto.

 

Non era proprio uno squillo. Era.. a metà fra un trillo e..

 

Ed lo fissò stupefatto, con l’espressione più assurda e incredula che seppe indossare. Mark ringhiò qualcosa rotolando giù dal letto.

 

Frugò per pochi istanti nel suo cassetto mentre quel suono si ripeteva, monotono e noioso.

 

Il suo cellulare.

 

Ed si sedette sul bordo del letto, guardandolo come se avesse avuto davanti un marziano tutto verde e con le antennine in testa.

 

“Hai un cellulare! *Qui*! – un qualcosa che suonava un po’ come un sibilo, in risposta – Ma lo sai che è vietato?! Se ti becca il mister! Peggio: se ti becca *Ross* ti fa la pelle!”

 

Mark lo ignorò clamorosamente pigiando il tasto per aprire la comunicazione.

 

“Sì? – ci aveva messo un attimo per sintonizzarsi su una lingua che non era la sua quando aveva visto il numero che gli stava lampeggiando sul display, ma, alla fine, l’italiano gli uscì dalle labbra fluente e tranquillo come se niente fosse. Antonio, fra tutte le persone, in quel momento era proprio l’unico di cui avesse voglia di sentire la voce – Sono io.”

 

“Mark, tutto intero?”

 

“Pare.”

 

Un silenzio leggermente prolungato.

 

“Puoi parlare?”

 

Mark cercò di pensare cosa volesse davvero. Dormire non ce l’avrebbe fatta: era troppo teso, era troppo .. arrabbiato. Sì, era furioso, a pezzi, distrutto. Era stanco, gli faceva male qualunque cosa potesse fargli male, escluso il ginocchio che era sotto sedativi. Quasi aveva voglia di piangere.. forse *avrebbe* pianto, se si fosse ricordato come si faceva. E Antonio era l’unico al quale avrebbe avuto il coraggio di dirlo.

 

“Sì, aspetta.”

 

Si alzo in piedi, buttando l’apparecchio sul letto, poi, raggiunta la porta, si voltò verso Ed.

 

“Vai.”

 

“’Vai’?! Ma sei scemo?! Mark..”

 

L’occhiata che ebbe come risposta bastò più di mille cose, più di qualsiasi azione a fargli ricordare cosa erano stati entrambi. Ed: il portiere. Mark: il Capitano. E capitano sempre. Dentro e fuori il campo. Soprattutto, odiosamente, quando erano *fuori* dal campo.

 

Ma come si permetteva di dargli ordini, ancora, come se .. come se fosse suo padre! In quel modo, poi! Senza una spiegazione, senza un cazzo di niente!

 

Aveva odiato da subito quel suo modo di comportarsi, quella sua schifosa arroganza, come se si credesse il padrone del mondo, e, soprattutto, il signore incontrastato di qualunque desiderio! Mark, quando voleva qualcosa, prendeva, senza chiedere, senza domandare il permesso o cosa ne pensassero gli altri coinvolti. Brutto stronzo..

 

Lui non era uno dei ragazzini che gli facevano da codazzo adorante quando, dodicenne, era il piccolo dio di quello striminzito campetto di calcio! Lui era Edward Warner! Era uno *famoso*! Mica come lui, lurido pezzente senza futuro! Lui era *già* un piccolo campione di karate, lui era figlio di *quel* Warner là!

 

E lui era capitolato di fronte alla tigre. Lui come tutti.

 

Ora come allora.

 

La porta gli si chiuse alle spalle, Ed non riuscì a smettere di fissare il muro bianco che aveva di fronte agli occhi, di quel corridoio fiocamente illuminato e silenzioso.

 

Come poteva fargli quell’effetto? *Ancora*? Il pensiero era quasi comico.

 

Solo quasi, ovviamente.

 

Il dolore sordo del suo orgoglio scheggiato gli rimbombò nelle orecchie, senza sosta e di questo fu grato: non aveva la forza di *sentire* cosa aveva da dirgli la sua mente, in quel momento.

 

Poteva andare a infastidire Danny: dopo tutto il piccolo se lo meritava, li aveva stressati tutti quanti per ore.

 

Sperò di svegliarlo.

 

Sì.. Ed sogghignò appena: l’avrebbe svegliato e poi l’avrebbe buttato fuori dalla sua stanza perché tanto, ormai, Danny era un procuratore e mica sarà stato stanco a passare un pomeriggio seduto comodo a guardare una partita allo stadio no?! Lui, invece, aveva sonno, e se quel matto paranoico di Mark si faceva venire le crisi perché qualcuno potesse origliare le sue conversazioni segretissime con chissà che focoso amante italiano non è che poteva sempre andarci di mezzo lui solo perché condividevano la stanza!

 

Sbuffò ficcandosi le mani in tasca: per fortuna che era ancora vestito. Mark sarebbe stato capacissimo di sbatterlo in corridoio pure nudo come un verme, vista la sensibilità media di cui, solitamente, faceva sfoggio.. quell’idiota!

 

Ma chissà cosa ci trovava in lui?

 

Chissà cosa poi ci trovavano *tutti* in lui?!

 

Si mosse da solo, al di là di qualsiasi comprensione, o riflessione, pensiero o scrupolo. Si sentì voltarsi leggermente e premere la mano contro la maniglia.

 

Quanto era passato?

 

Poco.

 

Minuti, forse.

 

Ma Mark non era mai stato quello che si poteva definire un tipo loquace.. che scusa avrebbe inventato ora?

 

Avrebbe fatto meglio a dare fastidio a Danny, dopo tutto doveva *servire* a qualcosa pure lui, no?

 

Silenzio.

 

La luce accesa era impietosamente bianca, crudelmente chiara. Sembrava quella di una sala operatoria: senza ombre, asettica e terribile.

 

Mark non parlava.. no. Il cellulare era spento, appoggiato sul comodino.

 

Lui era steso prono sul letto, il volto girato verso la finestra, le braccia che scomparivano, intrecciate, sotto il cuscino a sostenergli il capo.

 

Vestito.

 

Dormiva?

 

Ed fece attenzione e si accorse, dalla cadenza del suo respiro che no, era sveglio. E si era di sicuro accorto del suo rientrare, ma non aveva mosso un solo muscolo.

 

Tipico di Mark: ignorare le cose che non lo interessavano.

 

Ed schioccò le labbra, sbuffando: quella partita era stata più stressante di quello che tutti loro avrebbero potuto immaginare e Mark, che era stato dotato, da madre natura, di così poca pazienza, non poteva che soffrirne terribilmente.

 

Perché dannazione doveva sempre perdonargli ogni cosa? A quel pensiero gli sfuggì un sorriso. Un discorso profondo, interessante e fatto tutto nel silenzio della sua testa. Di fronte a cose così idiote cosa pretendeva che Mark gli potesse rispondere? Nulla. Neppure lui sapeva cosa rispondersi.

 

Si svestì in fretta, solo lo scatto dell’interruttore della luce fece da contrappunto allo scendere del buio fra di loro. Il frusciare delle lenzuola addosso e come una sorta di senso di colpa che gli morse il cuore.

 

“Mark?” provò.

 

“Sì?”

 

Non ‘che vuoi’ o ‘lasciami in pace idiota’. Un pacato ‘sì’ in quella condizione, era più che accettabile.

 

“Arriverai vivo a domattina o mi farai il terribile scherzo di tirare le cuoia durante il mio sonno? Sai che mi spaventerei terribilmente a sapere di aver dormito nella stesa stanza con un cadavere!”

 

Uno sbuffo, che sembrava un sorriso estorto con l’inganno da quelle labbra. Un ghigno amaro, o qualcosa di simile, e molto, molto stanco.

 

Per Mark, quella, era una gran risposta.

 

Ed, tranquillo, si trovò addormentato prima ancora di accorgersene. E non vide lo sguardo di Mark scintillare, voltandosi verso di lui.

___

 

Benji conosceva bene Mark. Forse meglio di tanti altri.

 

Certo era che trovarselo di fronte così furibondo era sempre impressionante, soprattutto quando non ce l’aveva con lui. Soprattutto quando stava andando in escandescenze per un sacrosanto motivo.

 

“Domani!?! Dovevamo avere quattro giorni di riposo! Domani non possiamo metterci a fare una partita!”

 

Ross sospirò, affranto.

 

“Mark, hai perfettamente ragione..”

 

“Lo *so* che ho ragione! Cosa diavolo è successo per spostare una partita così importante?!”

 

Era l’ultima partita dei quarti, quella che avrebbe deciso quale squadra avrebbe aggiunto le semifinali. Quella data, e lo stadio, erano decisi da mesi, i biglietti erano stati venduti prima di essere stati messi in effetti sul mercato.

 

Price socchiuse gli occhi. Ross aveva parlato di una situazione preoccupante e alcuni brutti segnali che avevano fatto propendere i dirigenti della FIFA a apportare questi cambiamenti all’ultimo momento.

 

Una partita così importante anticipata di tre giorni: era un colpo basso per tutti, soprattutto per loro.

 

Mark era furioso, ed aveva tutti i motivi di questo mondo. Chissà, si chiese Benji, se davvero il suo ginocchio non gli faceva più male, ora? Chissà se ce l’avrebbe fatta? Non aveva detto nulla a riguardo, e probabilmente non l’avrebbe mai fatto neppure se ne fosse andato di tutto se stesso. Mark era sempre stato un terribile testardo e non avrebbe mai ammesso di non essere in forma.

 

Quell’idiota.

 

Benji distolse lo sguardo: quella sfuriata non aveva senso. Se la decisione era stata presa a quei livelli non c’era nulla che lui, o tutti loro, avrebbero potuto fare per cambiarla. Al massimo avrebbero solo potuto non giocare, e perdere a tavolino. Non era un’opzione accettabile.

 

Holly si mise in piedi.

 

“Posso rientrare in campo, in fondo..”

 

“Non te l’ho chiesto, Hutton!”

 

Holly strinse i pugni.

 

“Non essere stupido, Lenders! Ci hai portato fino qui, ma neppure tu puoi fare miracoli. Dobbiamo cambiare più giocatori possibili, dobbiamo mettere dentro quelli più freschi, e tu non sei tra quelli.”

 

Ross si morse un labbro aspettandosi la reazione.

 

Che arrivò. Ovvia e fulminea come sempre.

 

“Io non sarò fresco, ma tu non sei in grado di stare in piedi, rottame!”

 

“Sto bene, ce la posso fare!”

 

“Sì, e come no? E se arriviamo in finale chi la gioca? Ci mettiamo Ross in campo?! O Danny?”

 

Holly sollevò il capo in fare di sfida. Duro, era diventato tosto, il piccoletto. Aveva il coraggio di tenere testa a Lenders.

 

Come se poi qualcuno *potesse* davvero tenere testa a quel demonio quando si sentiva punto sul vivo..

 

“Ti siamo tutti grati di quello che hai fatto per la squadra, Lenders..”

 

“Ma non mi lascerete a piedi, adesso! Questa partita è *mia*!”

 

“Nessuno vuole portarti via niente, Lenders! E’ solo che..”

 

“E’ solo che hanno spostata all’ultimo momento una data simile! – ringhiò mosse un passo indietro. Si limitò a fissare, furioso, fuori dalla finestra – C’è da giocare domani? *Io* domani giocherò, ma non potete pretendere che la cosa mi faccia piacere!”

 

Un piccolo sospiro sfuggì dalle labbra serrate di Ross che, forse, temeva una reazione peggiore. Hutton, chissà come, riusciva a smorzare le fiamme più alte di Lenders. E lo faceva quasi senza accorgersene.

 

Oppure era Lenders che aveva perduto mordente.

 

Benji era quello che pensava: era palese ci fosse qualcosa di strano in Mark. Un fastidio diffuso. Dolore? Non ne era certo. Anzi: sperava proprio di no. Di certo non bastava un ginocchio malmesso per fare quell’effetto alla loro Tigre.

 

Un ghigno divertito gli piegò il viso. Chissà se si sarebbe ricordato della piccola notizia che gli aveva sussurrato in un orecchio, qualche sera precedente?

 

Non era probabile credere il contrario. Doveva sentirsi.. in colpa? Non era corretto quello che aveva fatto, lo sapeva, ma, dannazione! Lenders era forse quello che s’era comportato correttamente con lui? E poi, quando di mezzo c’era la gelosia, si poteva davvero essere corretti?

 

Price si sentì bruciare di un gelo che intossicava l’anima. Non voltò il capo verso di Mark perché, altrimenti, sarebbe esploso in qualcosa, avrebbe detto ciò che non voleva dare al soddisfazione a Lenders di sentire, si sarebbe reso ridicolo, e questo il suo ego l’avrebbe sopportato ancor meno.

 

Lui aveva fatto quello che, aveva sentito, doveva fare. Il resto non era più in mano sua.

 

Sorrise caustico a Warner il quale, in tutta sincerità non sembrava essere abbastanza lucido per capire cosa fosse successo, visto che aveva la faccia di uno che non avesse dormito molto bene.

 

Meglio!

 

Sbuffò, alzandosi in piedi, sistemandosi il suo cappellino rosso sulla fronte.

 

“Bhè, se non c’è altro da dire, io comincerei gli allenamenti. Il mio rientro deve essere al meglio.”

 

Lui e Lenders insieme, in una partita.

 

Dalla stessa parte del campo.

 

No: Lenders doveva assolutamente giocare.

 

Quella era la *loro* partita. E l’avrebbero vinta, li avrebbero stracciati, anche se avevano spostato la data, lo stadio, anche se fosse successo di tutto. Bastavano loro due, insieme, a cambiare tutto il mondo.

___

 

Ricordare, per lui, era far ritornare indietro il mondo, quando tutto era lì, a portata di mano, ma non poteva allungare un braccio e prendere ciò che desiderava. Quando non bastava volere, non bastava chiedere, nel modo giusto, con cortesia, educazione, o facendo anche i capricci.

 

Ricordare era guardarsi alle spalle e scoprirsi testardo, e solo. Non aveva nulla da perdere e allora aveva messo, sul tavolo da gioco se stesso, per avere qualcosa con cui puntare.

 

Aveva vinto. Non una volta sola.

 

Ora allungava la mano e sentiva lì, le cose che aveva ottenuto: Mark Lenders, la tigre, il campione, il calciatore professionista, titolare di una squadra di serie A italiana, titolare della squadra nazionale giapponese. Quello che firmava autografi e contratti. Quello che, ora, non avrebbe più dovuto aver paura ad aprire gli occhi temendo un futuro che non poteva affrontare.

 

Ora poteva affrontare qualsiasi cosa.

 

Era stato nulla, ed era diventato un campione.

 

Era stato distrutto, annientato, ora non poteva tirarsi indietro, come se non fosse in grado di sopportare quello che la vita gli metteva di fronte. *Ora*.

 

Ora non era niente.

 

Ora era tutto semplice.

 

Ora era tutto rose e fiori.

 

Ora c’era lui, e il suo orgoglio.

 

Il suo orgoglio era da farlo in frantumi per entrare in quella stanza, per chiedere.. domandare quella *cosa*..

 

Ma il suo orgoglio era anche la sua parola.

 

Aveva *detto* che li avrebbe potati alle semifinali.

 

E Mark Lenders, la tigre, quando diceva, era una promessa.

 

Era per loro, per la squadra. E per se stesso. Soprattutto per se stesso.

 

Era dimostrare che ce la faceva. Era sputare una volta di più in faccia alla vita e dirle, ridendo, che lui ce l’avrebbe fatta. Sempre. Che non si sarebbe arreso per così poco, che non sarebbe stato sconfitto. Che Lenders non si piegava, che non accettava di rimanere un signor nessuno nel grigio della mediocrità. Che avrebbe vinto. E se fosse stata l’ultima cosa che avesse fatta, quella, ebbene: sarebbe stata una cosa di cui non voleva potersi pentire.

 

Non voleva pentirsi di nulla della sua vita perché sapeva che essa era fragile, e poteva scappare via dalle dita all’improvviso, come niente, senza preavviso, senza scusanti o motivazioni: come una macchina che uccideva, tanti anni prima, il padre di una famiglia numerosa, e lo gettava di lato, ai bordi della strada senza neppure rallentare, proprio come aveva gettato la loro famiglia nella disperazione e nel caos. Lui, da quel caos, aveva tratto un ordine, il *suo* ordine, che era la sua vita, i suoi obiettivi, le sue mete, le sue vittorie. Le sue conquiste.

 

Non poteva guardarsi indietro e pensare : ‘accidenti, quella volta m’è scappata quella cosa.’.

 

No. Non lui.

 

Gli incidenti capitavano, erano normali, ma tutto ciò che era nelle sue possibilità dipendeva da lui. E ciò che dipendeva da lui, doveva andare come *lui* decideva.

 

Avrebbe giocato e vinto.

 

Li avrebbe portato alle semifinali.

 

Non c’era altro che importasse, in quel momento, niente che dipendesse da lui, niente che .. che *riuscisse* a fare.

 

E poi aveva promesso.

 

Lui sarebbe stato orgoglioso di se stesso.

 

Chiuse gli occhi nel picchiare a pugno chiuso contro la porta serrata su cui faceva bella mostra di sé la targhetta lucida con un nome e un cognome.

 

“Avanti.”

 

Era un medico della Federazione. Sapeva cosa faceva. Dopo tutto se erano loro che facevano le leggi, sapevano pure come aggirarle.

 

“Lenders! –sorrise. E Mark provò forte la tentazione di spaccargli a faccia. Non lo fece, lasciandosi crollare sulla poltroncina di fronte alla scrivania chiara. Tutta la sua determinazione, ora, era concentrata sulla partita, il resto era .. un voragine nera, che doveva dimenticare, che doveva mettere da parte, altrimenti gli avrebbe risucchiato qualunque energia. Non poteva permetterselo. – Ti sei deciso finalmente! Se venivi un po’ più tardi non so se sarei stato in grado di assicurarti..”

”Sì. Fallo.”

 

Lo vide sbuffare, armeggiare con l’armadietto dei medicinali che aveva alle spalle, poi allontanarsi, dietro una porta interna. A cercare qualcosa che, forse, non era legale per un medico tenere sotto mano.

 

Mark si ritrovò a sorridere: non era *legale* che lui accettasse quello. Lo sapeva. Non era servita la telefonata di Antonio, la sera prima per ricordarglielo.

 

‘Puoi sempre dire di no, Mark. Puoi farlo. Nessuno ti potrà accusare di niente.’

 

Ma il mondo sembrava capovolto, le regole riscritte di fresco, e non sapeva perché, ma era come se si sarebbe sentito in colpa, se non avesse fatto di tutto per giocare, e per vincere.

 

Il computer era acceso al di là della scrivania.

 

Ricordò Price, un dolore che scava ancora dentro. Vergogna. E altro.

 

Altro: parole.

 

Price con le parole sapeva essere più velenoso di un serpente a sonagli e Lenders sapeva bene quanto potessero ferire, delle parole.

 

Si era alzato e seduto di nuovo quasi senza accorgersene: digitare il suo server, cercare la sua pagina di posta.

 

Il cuore gli mancò un colpo: come poteva saperlo, Price, di .. di *quello*. Il suo indirizzo privato. E una mail.

 

Non voleva leggerla.

 

Non *poteva*, non prima di una partita simile.

 

Selezionò l’opzione ‘print’ prima di chiudere le finestre. La stampante ronfò un poco per sputare fuori un foglio.

 

Che Mark non *voleva* leggere.

 

Lo piegò e lo infilò in tasca della tuta un attimo prima che il dottore facesse il suo ritorno. Una siringa, un ago, un flacone.

 

“E’ la prima volta che lo fai?”

 

Mark annuì, e si sentì stanco.

 

“Allora ti devo avvisare che è molto poco probabile che stanotte dormirai, ma almeno domani non ne saranno rilevate tracce nei controlli. E sarai così carico che te li mangerai gli avversari! – rise. La fiala vuota cadde sul pavimento, infrangendosi in mille schegge. La luce immobile tagliò di sbieco l’ago sottile a contatto con la sua pelle scura. Fuoco, nelle vene, violento e doloroso. Dovette chiudere gli occhi per un attimo, per essere certo che non sarebbe crollato a terra – Andiamo, andrà tutto bene! Sei forte, tu, e poi hai iniziato tardi..”

 

Non sapeva se era un’accusa, un complimento o chissà cosa. Mark prese un respiro e scoprì che non gli venne.

 

Se ne andò da quella stanza senza più voltarsi indietro, perché non avrebbe potuto senza sentirsi invadere dal.. dal disgusto. Non era stato abbastanza forte, era crollato prima della fine.. era colpa sua.

 

Doveva fare di tutto per rimediare..

 

*Di tutto*.

 

Ed lo stava aspettando seduto sul letto, il capo chino, abbattuto tanto quanto lo era lui.

 

Mark non riuscì neppure a guardarlo: Warner stava fuori solo perché c’era Benji, non perché non ce la faceva, non perché..

 

“Che hai, Mark? – una voce, al sua, dolente, preoccupata. Sentì le sue dita accanto al suo viso scostargli i capelli cercando di non toccarlo, come se il farlo l’avrebbe mandato in pezzi. Forse, solo, non voleva dargli troppo fastidio.. e Mark si accorse di non averlo neppure sentito avvicinarsi. – Sembri uno che ha appena visto un morto!”

 

Mark sforzò un sorriso. Si aggrappò a quel foglio stropicciato che gli pungeva le dita dal fondo della tasca dei pantaloni e glielo porse.

 

“Mi fai un favore, Ed? Me lo tieni?”

 

Ed lo fissò in silenzio, stranito, prese il foglio liscio, piegato in fretta e scosse un po’ il capo.

 

“Cos’è? E’ successo qualcosa?”

 

“No. – Mark mentì. – Ma.. tienilo fino alla fine della partita. Non darmelo prima, neppure se te lo chiedessi. Per favore.”

 

Il fiato mancò, si ruppe.

 

Distolse lo sguardo.

 

“Mark..”

 

“Per favore, Ed. Ho solo te di cui potermi fidare..”

 

Era una dichiarazione di fiducia. Quasi una dichiarazione d’amore, per uno come Lenders. Ed comprese e non chiese più nulla prendendo quel foglio bianco tra le dita.