NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa! Alex, al contrario degli altri, è un mio personaggio, proprio come Antonio.. e si vede perché sono gli unici due con un po’ di cervello –sentimenti magari no, ma cervello sì!-.

 

NOTE 2: di calcio non ne capisco nulla. Se ho scritto stupidate sull’argomento chiedo perdono, spero vi basti la buona intenzione!

 

NOTE 3: Amburgo è una delle molte città nordeuropee che si fregia del titolo di ‘Venezia del Nord’. Ovviamente di Venezia non ha un accidente di niente, se non il fatto che è costruita su dei canali, però è un posto davvero peculiare. Non so se lo scrittore ufficiale di CT abbia scelto una città a caso, oppure ci sia stata una scelta precisa alle sue spalle, però devo ammettere che, per quel che mi riguarda, a un tipo come Benji ‘sta bene’ una città come Amburgo. Ovviamente questo mio punto di vista non potevo non metterlo nella fic! Così, sorbitevi questa specie di ‘gita turistica sulla foce dell’Elba’! Ovviamente gratis! ^^

 

#flashback#

 

 



La Tigre

parte XI

di Dhely

 

Mark, in campo, era una tigre.

 

La Tigre.

 

Perché?

 

Perché non rallentava mai un’azione, perché non si fermava mai, perché sfidava chi aveva di fronte proprio come se ne andasse della sua vita. E quando correva con il pallone fra i piedi non abbassava mai gli occhi, ma li guardava, quelli che gli si paravano di fronte, e li guardava fissi, e terribile. Non c’era da studiare velocemente il rapporto forza/peso. Non c’era da far affiorare alla mente chissà che schema. C’era Mark, su un campo, la palla e la porta avversaria. Basta.

 

Non era un capitano come Holly. Forse non era neppure un *buon* capitano. Non si interessava troppo dei suoi compagni, li utilizzava, si limitava spesso a sopportarli. Non era come Holly, lui, non era un fantasista, non giocava divertendosi e divertendo, non sorrideva, non incoraggiava, non era strepitosamente bravo, riempiendo il campo con i suoi movimenti studiati, che sembravano frutto più della mente che del corpo, non aveva la sua abilità sottile, la delicatezza nel tocco, l’eleganza.

 

Eppure.. eppure la squadra gli stava alle spalle come se lui, con la sua sola forza, l’avesse obbligata lì. La tirasse avanti, passo dopo passo.

 

La loro forza era la sua: la sua rabbia, la sua determinazione, il suo fuoco. E la teneva insieme, in piedi, con quello che gli bruciava dentro.

 

E anche quelli che mugugnavano infastiditi dal suo atteggiamento, anche quelli che avrebbero quasi preferito non giocare, piuttosto che farlo alle direttive di uno come lui, anche loro entravano in campo e cadevano vittima della malia di Lenders.

 

Non era una magia, ma qualcosa di altrettanto incomprensibile. Era la volontà che diventava un grumo pesante e concreto, che prendeva forma e diventava come funi e lacci che legavano e tiravano tutti in avanti, verso la meta. Senza risparmiare un fiato, senza risparmiare nulla.

 

Non c’erano tempi morti, non c’era la tensione che poteva diminuire, c’era solo rabbia. E *bisogno* di vincere, di imporsi.

 

Mark era spaventoso.

 

Danny aveva sempre saputo che fosse aggressivo, ma non se lo ricordava così.. disperato. Come qualcosa dentro si fosse rotto, e si fosse coperto di ferite con le schegge di esso.

 

Eppure era uno spettacolo.

 

Era come se ciò che lo animasse fosse contagioso, e alla fine delle partite tutta la squadra era sfinita, stravolta. Era come se li prendesse, uno per uno, e *strizzasse* da loro ogni singola goccia di sudore.

 

E *vincevano*!

 

Con Holly fuori. Con Benji fuori. Con Philip che aveva ancora noie alla caviglia, ogni tanto. Con Patrick che Mark proprio non lo sopportava. Con i giocatori che non si amalgamavano..

 

Alla seconda partita Ross credeva ancora in un contributo speciale della fortuna. Alla quarta iniziò a pensare a *come* se la fossero meritata, tutta quella fortuna.

 

Alla settima *non* era fortuna.

 

Vittorie ‘comode’, non facili, ma dai margini ampi. Premendo sugli avversari sempre, tagliando loro il fiato nei polmoni, togliendo, quasi, l’erba da sotto i piedi. Avversari famosi, squadre importanti, campioni.

 

Loro erano il Giappone!

 

Insomma, contro il Laos non avevano mai mostrato terribili problemi ma l’Argentina era l’Argentina! Era un mostro sacro del calcio! Era.. già quando avevano battuto l’Olanda gli era parso che fossero arrivati nel paradiso,  nell’Empireo, e che potevano dirsi entusiasti e soddisfatti dei loro risultati a quei mondiali, e che mai, *mai* lui, Julian Ross, vice allenatore e sostegno morale e logistico di tutta la squadra, preparatore tecnico e cose varie si sarebbe mai immaginato che potessero arrivare così avanti.

 

E invece..

 

La panchina era raggelata.

 

Meglio: la metà raziocinante della panchina era raggelata dalla scoperta di essere così ‘in alto’, e di scoprirsi così all’improvviso tanto bravi e forse, ok, pure un po’ fortunati ma, santo cielo!, la palla è rotonda e senza la dea bendata che dia una bottarella ogni tanto non si può sperare di arrivare da nessuna parte!

 

L’altra metà compensava benissimo la mancanza di entusiasmo degli altri. Holiver Hutton era così commosso che quasi piangeva aggrappato alla maglia di Price. Roba da non crederci!

 

Ma proprio da *non* crederci! Pure i giornalisti sportivi erano rimasti un po’ spiazzati dall’andamento delle cose e, anche i più esperti, cominciavano a non sapere più cosa dire su quella “nuova, sensazionale squadra del panorama internazionale” che mieteva successi su successi senza sapere cosa fosse uno schema di gioco e non aver mai mostrato di conoscere davvero l’esistenza dei passaggi. Oh, non che fossero poi così male, però, insomma, era un mondiale! Alcuni di quei giocatori erano eccellenti star, in squadre di tutto il mondo, in club prestigiosi che si sarebbero lasciati svenare pur di non lasciarsi sfuggire il loro ingaggio per una decina di anni ancora, ma come gruppo, il Giappone non era propriamente al livello di alcune squadre che aveva affrontato e battuto.

 

Esclusa da subito una meschina contrattazione di compravendita di partite, con arbitri compiacenti e cose simili, perché erano da settimane che ci lavoravano sopra e non avevano ancora scoperto nulla, i casi erano due: o le botte di fortuna, per chissà che motivo continuavano ad abbattersi come la grandine sulla squadra Giapponese, oppure non facevano poi così schifo.

 

Gli esperti si dividevano, dibattendo la questione.

 

Hutton, invece, non aveva dubbi, lui lo *sapeva* che sarebbero arrivato in finale perché Mark gliel’aveva detto: “Te lo ricordi, Benji, eh? Te lo ricordi?! Ha detto che visto che siamo due rottami e che al massimo potremmo giocare due partite, o al massimo tre, mi ha promesso che avrei dovuto giocarne giusto due: la semifinale e la finale e che alle altre ci pensava lui! Non è grande?! Sta facendo esattamente quello che ci aveva promesso! – occhi spalancati dalla felicità incontenibile, e poi: - Maaaark!” urlando e correndogli incontro per fargli i complimenti e dirgli quanto fosse migliorato e quanto gli fosse grato e come..

 

Mark se lo scrollò via di dosso, così ad Holly non rimase che Tom da ringraziare e da abbracciare e di cui essere entusiasta.

 

Mark sorrideva appena mentre Ed diceva qualcosa, ridendo forte. Una mano sulla spalla.

 

Una. Mano. Sulla. Spalla.

 

Benji ringhiò una maledizione e distolse lo sguardo.

 

Ross lo fissò cercando di mostrarsi conciliante.

 

“Andiamo, Price, capisco che tu non veda l’ora di entrare in campo, ma devi ammettere che Warner sta facendo un ottimo lavoro.”

 

“Già.”

 

“Sei di un entusiasmo disarmante. Ma dì, t’è morto il gatto?! – Julian si scosse nelle spalle – Andiamo. Per il bene della squadra!”

 

Avrebbe voluto dirgli che, a lui, in quel momento, della squadra non poteva fregare un bel niente. Che si impiccassero tutti! Che il suo unico pensiero era un altro. Che il suo unico problema era.. odiava quel tempio, e le panchine sotto gli alberi, e quella dannata scala! Odiava alzarsi così presto che non si capiva se era ancora giorno o notte solo per stare là come un idiota e guardare un altro idiota correre su e giù che se almeno gli si fosse schiantato il cuore in petto, almeno sarebbe servito a qualcosa! Mai che, scendendo fosse scivolato su qualcosa, rotolando giù in un boato spaccandosi l’osso del collo! Niente!

 

Tutte le sante mattine Lenders riusciva ad arrivare fin lassù, di corsa, lanciargli uno sguardo di sbieco, appena appena accennato, che se non fosse stato Mark avrebbe detto che quasi arrossiva d’imbarazzo e vergogna, e poi ritornare giù. In silenzio. Mai una parola, una sillaba, qualcosa che fosse diverso dal fiato grosso dovuto alla salita.

 

Un giorno di quelli l’avrebbe ammazzato!

 

Cosa aveva da guardarlo così?

 

E poi lo sapeva che lui era là! Perché faceva le scale? Per il tempio?! Oh, andiamo! Lenders non era uno di quelli che *pregava*! Perché non si allenava facendo un altro giro? Price era certo che lì intorno fosse pieno di salite o di belle stradine in pendenza, o magari, pure di altre scale! Ma perché doveva andare *là* tutte le sante mattine?!

 

E perché doveva esserci *lui*, poi?!

 

Sentì la bile riempirgli al bocca. Se avesse potuto gli si sarebbe piantato davanti e gli avrebbe sputato in un occhio a quello.. gli mancò il fiato, per un attimo pure la vista si sfocò un poco.

 

Benji si limitò a calarsi con più forza il cappello sugli occhi e a ringhiare un’affermazione. O qualcosa che sarebbe potuta passare per un’affermazione. A Ross non sarebbe importato, alla fine.

___

 

Antonio aveva urlato qualcosa, in italiano, ai suoi compagni di squadra prima di strofinarsi i capelli con un asciugamano asciutto. Prese la bottiglietta d’acqua che uno dei ragazzi della panchina gli porgeva e fissò Tom con un mezzo sorriso critico.

 

Gli si avvicinò lentamente.

 

“Thomas Beker. – un inglese lentamente accennato, lievemente dondolato – A cosa devo l’onore?”

 

Tom socchiuse appena gli occhi.

 

Antonio: l’aveva già visto giocare, quando era stato col Marsiglia ogni tanto aveva assistito a qualche partita della squadra di Mark e quel capitano gli era subito piaciuto. Aveva saputo da poco che aveva la fascia anche di capitano della Nazionale italiana, era stato Ed a dirglielo, prima di chiedergli se poteva fargli *quel* favore.

 

A Tom non era occorso molto tempo per sapere dove l’Italia era in ritiro: non a troppa distanza dal loro albergo. Il suo manager aveva dovuto fare solo un paio di telefonate per organizzare quello strano incontro alla buona.

 

Ora che si scopriva a sapere benissimo cosa dire, ma non come chiederlo, di fronte allo sguardo luminoso e aperto di Antonio si sentì immediatamente a suo agio.

 

Gli sorrise in risposta.

 

“Scusa se ti disturbo. Ma .. abbiamo un problema e magari tu puoi aiutarmi. Se sei d’accordo.”

 

Il ragazzo di fronte a lui prese un lungo sorso d’acqua poi sfiorò Tom su una spalla, spingendolo lentamente verso una spoglia gradinata di cemento. Vuota e un po’ appartata.

 

“Mark? - una domanda che già suonava d’ovvio – Il ginocchio gli da ancora noie?”

 

Tom si sedette e lo fissò stupito.

 

Il ginocchio? Mark aveva male a un ginocchio? Ed aveva accennato a qualcosa del genere ma non era quello che più lo preoccupava.

 

“No. E’ qualcosa di più.. personale..”

 

Non trovò le parole, ma si stupì del sorriso delicato di Antonio. Chinò la fronte scuotendo il capo con un piccolo sospiro.

 

“Questa volta c’è dentro fino agli occhi, non è vero?”

___

 

L’albergo era organizzato per ricevere gruppi di persone per i più svariati motivi. Alla Nazionale di Calcio Giapponese avevano riservato alcune sale comuni, private.

 

Il televisore satellitare, multicanale, era controllato a vista da uno dello staff calcistico: i ragazzi erano in ritiro e il Mister aveva proibito tassativamente ogni contatto col mondo esterno che potesse destabilizzare o far preoccupare eccessivamente i ragazzi. Erano vietati dunque ogni recensione giornalistica, ogni notizia allarmante, solo film, canali di musica.. le solite cose che di solito guardavano dei ragazzi. Se non fossero stati vietati pure troppo i contatti con la famiglia e amici e ogni collegamento ad internet, sarebbero stati tutti soddisfatti di quella vita da reclusi nella quale non potevano neppure uscire a prendere un po’ d’aria senza avere gli occhi di qualcuno addosso, per non parlare poi di scendere in città..

 

Musica.

 

Dei videogiochi.

 

Mark sdraiato a metà sul divano mentre con un occhio cercava di seguire le prodezze di Philip con un joystik in mano e, svogliato, giocava leggermente con una penna con cui stava cercando di terminare le parole crociate.

 

Non ne aveva molta voglia.

 

Ed rise: “Ehi, Mark, non dirmi che sei diventato un intellettuale!”

 

E rise di nuovo, ancora, quando Lenders gli scagliò dietro il giornale, e la penna, e il cuscino che, fin a pochi attimi prima, gli aveva sostenuto il ginocchio.

 

“Tutta invidia, portiere! Sei mai riuscito a terminare i giochi in cui devi annerire gli spazi col puntino?!”

 

Scattò, un sorriso dipinto sulle labbra. Ma non si mosse, rimanendo lì, indolente proprio come una tigre.

 

Nessuno ci fece caso. Forse solo Danny.

 

Mark era sempre stato iperattivo, eppure era da almeno cinque minuti che stava lì coricato, e non aveva neppure reagito in una sua solita maniera alla punzecchiatura di Warner.

 

Socchiuse gli occhi, scuotendo la testa: era troppo preoccupato, e per nessun motivo. Mark era grande, un uomo maturo, che non aveva di certo bisogno di una balia e che, anzi, non sopportava quegli atteggiamenti troppo protettivi nei suoi confronti. Mark, in effetti non ispirava senso di protezione proprio per niente. Non l’aveva mai fatto.

 

E allora perché, adesso, era quello che Danny si sentiva dentro?

 

Si diede dello stupido, e ritornò ai contratti da studiare che aveva, sparpagliati, sul tavolo, sotto gli occhi.

 

La musica che proveniva dallo stereo era una delle cose più irritanti che avesse mai sentito. Sbuffò e, di sfuggita, intuì la sagoma di Ross che spariva da qualche parte, verso le stanze adibite ad uffici per il settore tecnico della squadra.

 

Tanto lì non avrebbe combinato nulla.

 

“Ross! – chiamò – Ross, scusa! Mi servono delle notizie per un contratto..”

___

 

#Amburgo era una bella città, nonostante fosse troppo distante dai suoi canoni estetici per poter dire di capirla davvero. Quelle case col tetto di ardesia, molto spiovente, e il vento. Poi il verde, tanto, che moriva nel grigio delle pietre che formavano ancora le mura portanti di così tanti edifici. In centro, come un buco.

 

Il porto: una voragine che si apriva con canali e canali, facendosi strada a fatica, quasi, dentro la terra. E lì l’abbraccio tra queste due realtà così lontane era tanto stretto che faceva mancare il fiato.

 

Price era abituato al mare, e sinceramente comprendeva più quel lembo grigio d’acqua gelida e percorsa e battuta da venti infiniti piuttosto che la cristallina conca che formava il tiepido mediterraneo, il suo sole e i suoi profumi.

 

Il mare del Nord gli piaceva, gelido, pieno di spuma e di forza. Sempre si gettava, indomito contro i moli di cemento armato, e contro i frangiflutti che venivano corrosi, dal tempo e dalla forza della natura, laggiù, in fondo, oltre il delta dell’Elba.

 

C’erano molti canali, ad Amburgo, e anche la campagna circostante era piena di queste creature che, come braccia si protendevano verso l’interno, dita sottili che si incuneavano nell’entroterra alla ricerca di chissà cosa. Chiuse e piccole dighe erano state costruite per dominare la violenza degli elementi, erano un simbolo costante della determinazione mai spenta degli uomini.

 

Gli piaceva la gente, quella salda sicurezza di chi è stato per mare, e che, per una volta almeno nella vita, aveva dovuto essere faccia a faccia con il fantasma di essere niente. Niente di fronte alla potenza del mare. Niente di fronte alla terra. Solo una piccola formica insignificante all’interno dell’enorme ingranaggio che era la società umana.

 

Erano cose che dovevano cambiarti dentro.

 

Un vecchio amico di suo padre glielo aveva raccontato, anche se ora non era più come quando lui era ragazzo. Ora il porto era il maggiore d’Europa, e attraccavano navi di grande stazza. Petrolio? No, non solo, almeno. Trasporti preziosi, ingombranti. Avevano perduto, con Amsterdam, la loro personale battaglia per essere i padroni del mercato mondiale degli oggetti realmente preziosi, ma escludendo quello, da Amburgo passava ancora gran parte delle merci che solcavano i mari.

 

Era rimasta il centro di un piccolo mondo. Un centro orgoglioso e forte, che si ergeva, ancora dopo secoli, contro la furia degli elementi e degli uomini. Bombardata e distrutta così tante volte che ricordarlo era impossibile ma i canali, i cui argini erano stati più volte toccati e ricostruiti, sistemati e rafforzati dagli uomini, ebbene: i canali erano sempre lì, ed intorno a quelle vie d’acqua la città si ricostruiva sempre, ogni volta.

 

Benji sorrise a sentire il vento che sferzava sul viso, anche se il mare non era lì, che gli si spalancava di fronte, ma si poteva vedere solo una grande lingua d’acqua scura che si incuneava nella terra, spaccandola, violentandola.

 

Era l’acqua salata, del mare del nord che penetrava fin nel cuore della città o era l’Elba ad essere così grande e forte da spingere il mare in giù, difensore trasversale della terra?

 

Non aveva importanza.

 

Gli uomini di Amburgo avevano imparato a vivere in un equilibrio indicibile e probabilmente la tensione che la loro città trasmetteva loro li avrebbe fatti sentire a disagio in qualunque altro posto.

 

Per lui, invece: era esaltante.

 

Era come se tutto vibrasse, come se l’aria si trovasse sempre in bilico su un dirupo, come se, da lontano, stesse per approssimarsi una tempesta. E infatti le tempeste si avvicinavano lentamente, incuneandosi in città proprio dall’Elba, da quella foce che era apertura e forza, controllo e insieme ferita.

 

Tanto tempo prima, quando aveva visitato quella città solo per seguire gli impegni di lavoro di suo padre, ed era fresco di letture immaginifiche, aveva visto Amburgo e gli era parso che quello fosse, *esattamente* il porto di Umbar. Corsari e pirati ben lontani da quelli dei mari Caraibici, ma.. ora, che sul libro che aveva riempito le sue fantasie da adolescente avevano tratto un film, Benji era felice che non avessero mostrato il porto di Umbar sulla pellicola, perché dentro di sé, lui lo sapeva com’era fatto.

 

Non aveva bisogno di vedere i sogni di carta diventare immagini di celluloide per *conoscere* Umbar.

 

Essa era lì, sotto i suoi sguardi.

 

Sorrise, di nuovo, sentendosi sciocco di quei pensieri ma non vergognandosi di essi.

 

Si voltò verso l’auto che lo stava aspettando con una portiera spalancata e l’autista in livrea lì teso come se fosse stato un becchino imbalsamato.

 

Non capivano niente.

 

Quel pensiero fu come una scudisciata che gli percorse il corpo. Nessuno che non fosse stato come lui poteva capire.

 

Capire l’eccitazione della sfida.

 

L’esaltazione di assaporare il mare che si mischia al fiume e alla terra.

 

Lo spalancarsi infinito del cielo ingombro di nubi terribili e basse, grigie, dalle quali pesanti navi mercantili sbucavano come guidate solo da un muto canto di sirene.

 

Suo padre e i suoi soldi, la sua ricchezza: non capiva niente.

 

Quelli che gli giravano intorno, la loro obbedienza, il loro rigore, tutti loro guardavano e non vedevano. Non capivano, non sentivano.

 

Forse non potevano. Forse, per farlo, bisognava possedere.. come un organo particolare, un senso peculiare che rendeva alieni tutti coloro che non condividevano questa fortuna.

 

Price si lasciò andare sui sedili di pelle. L’autista sapeva dove doveva andare.

 

Si passò una mano sui capelli, tagliati corti. Aveva perso il suo cappellino fortunato, quello con il quale aveva vinto tutto quello che uno della sua età poteva aver vinto. Se un ghigno tortuoso gli sfiorò il viso, esso scomparve subito. Sapeva che poteva averlo ‘perduto’ in un posto solo.

 

Ecco. Infine i suoi pensieri ritornavano imboccare la direzione precedente. Come se essi fossero un fiume dove, a volte, si formavano dei gorghi, ma la cui corrente spingeva sempre in una direzione precisa.

 

Pochi capivano, sì.

 

Uno l’aveva trovato.

 

Forse era come lui, forse era innamorato della passione, della forza, come lo era lui.

 

Oppure.. oppure era fatto della stessa materia della passione. Mark era fuoco. Fisico, forte, impositivo. Tutto passava attraverso il suo corpo, i suoi pensieri, le sue parole. In lui non esisteva un distacco tra il lato fisico e quello psichico: era come uno specchio, il suo corpo, il suo volto, che rimandava ciò che aveva dentro.

 

Un tempo, povero d’esperienza, l’avrebbe definita una maledizione alla fragilità eterna. Ora, invece, che l’aveva veduto: che arroganza! Che forza indomabile! Che fuoco ardente e meraviglioso!

 

Con Mark non doveva parlare, bastava guardarlo, guardarsi, per capirsi. Con lui non c’era il bisogno di spiegazioni, di motivi, di organizzare, decidere, prevedere, dirigere, dare ordini. No. Con lui c’era solo *vivere*.

 

E vivere lì, il presente.

 

Come se il presente fosse tutto. Come se non ci fosse domani, come se uno ieri non fosse mai esistito.

 

Non era questione di sesso. Non solo.

 

Il piacere se lo prendeva, eccome, ma..

 

Erano le notti che sgocciolavano via tra le dita. Era il colore caldo, scuro, ombrato da quelle ciglia terribili che gli si scioglieva addosso. Erano le sue mani. Il suo corpo, accarezzato, baciato, assaggiato, respirato.

 

Era la sua schiena, quando dormiva: se fosse stato un artista ne avrebbe fatto un quadro che sarebbe rimasto con lui per sempre. Quella schiena meravigliosa, nelle cui curve perdere lo sguardo, il collo, aprirsi sulle spalle, ampie, e poi la colonna vertebrale infossarsi in una morbida conca per poi ritornare su, e l’osso sparire sui muscoli e la carne dei glutei.

 

Passava ore insonni a guardarlo dormire, perché Mark dormiva *sempre* in quella posizione. Prono, le braccia intrecciate sotto il cuscino, appoggiate sotto il capo voltato di lato. Lungo, disteso, voluttuoso come una creatura inconsapevole, ingenua.

 

Se fosse stato sveglio Benji sapeva che non si sarebbe mai permesso di guardarlo in quel modo, come se temesse che il suo sguardo avrebbe potuto svelare troppo. E l’ammirazione facesse intuire altro.

 

Ammirazione, sì. Di fronte a .. un’opera d’arte, a uno spettacolo incantevole non si prova forse ammirazione? Non si restava forse incantati, senza fiato?

 

Era come dopo una tempesta, quando il mare ritornava scintillante, come fosse fatto d’argento liquido e il cielo si squarciava in brandelli di azzurro pulito. Il riposo di Mark, era quello. Il sonno di una tigre. La sua forza, il suo fuoco, la sua aggressività lì, con lui, dentro di lui, non dimenticate, non nascoste, semplicemente quietate.

 

C’era qualcosa di assurdo, in Mark. Qualcosa di terribile. Qualcosa di cui non riusciva a spiegarsi.

 

Lo odiava. L’aveva odiato.

 

Si *erano* odiati solo per scoprirsi amanti? No, non era così semplice. Non era semplice perché per le cose che capitano, immediate, dentro di noi, spesso non ci sono parole adatte, ma solo circonvoluzioni di frasi nebbiose.

 

Benji aveva deciso che non avrebbe cercato le parole di cui non avevano bisogno.

 

Benji aveva deciso che voleva solo Mark addosso, accanto. Mark da guardare. Da amare, per farsi amare.

 

Entrambi e insieme: guardare lui era un po’ guardarsi in uno specchio. Mark era l’immagine di se stesso se il destino lo avesse fatto nascere sotto altri auspici. Mark era forte. Mark era inflessibile. Testardo. Irremovibile. Odioso. Nato per essere ‘davanti’, per essere capo. Un gradino sopra gli altri.

 

Come lui.

 

Ogni notte infatti era una lotta. Non c’era tenera passione, o frasi sussurrate. Ma sorrisi scheggiati, strappati appena dalle labbra troppo affamate, e il desiderio che urlava un soddisfacimento immediato ma che non veniva compiuto se non dopo aver deciso chi, per quella volta, avrebbe dominato, chi avesse vinto quella partita. Chi aveva segnato.

 

Due pari che si fronteggiano non possono comportarsi in altra maniera.

 

In Mark Benji ritrovava se stesso. Anche nella lontananza, anche nel distacco, nei silenzi.

 

Silenzi.

 

Forse, e ci stava pensando da un po’, era giunto il momento di spezzarne alcuni, di quei silenzi. Forse era arrivato il tempo in cui dire alcune di quelle parole che avevano trovato una maturazione, dentro di sé. Che le sentiva premere, ormai, dentro.

 

Sentiva forte, da giorni, il desiderio di fare una cosa mai fatta, in tutti quegli anni: di prendere in mano il telefono e chiamarlo. Per dirgli.. cosa? Non lo sapeva, cosa. Ma era un bisogno nuovo, quello, di cui non si era mai accorto. O che forse non era mai esistito. Che, forse era nuovo. Ma era piacevole da portarsi dentro.

 

L’avrebbe chiamato?

 

Era brutto, sgradevole parlarsi al telefono.

 

Avrebbe potuto attendere la prossima partita, o la successiva occasione d’incontro: ce n’erano sempre. Guardandolo sarebbe stato più semplice. O forse voleva solo vedere che effetto avrebbero fatto quelle parole dentro lo specchio brunito che era Mark.

 

Forse.

 

Il sorriso non si spense dal suo volto.

 

Quella domenica, per la prima volta da quando giocava a calcio, Benji Price scese fra i pali senza nessun cappellino calato sugli occhi. #