NOTE: I pg non mi appartengono e li uso senza permesso. Oltretutto non ho utilizzato i nomi del manga ma quelli del cartone animato perché con quegli altri mi confondo troppo! Chiedo scusa!

 



La Tigre

parte IV

di Dhely

 

Era capitato a tutti, prima o poi, di mettersi a fantasticare sul proprio futuro, con la tipica forza degli adolescenti, impiegandoci magari ore a dispiegare di fronte agli occhi della propria mente il futuro desiderato, come se il sognarne ogni minimo dettaglio con forza l’avrebbe reso più vicino, più realizzabile.

 

La macchina preferita, che doveva essere *quella* e non altra. Il modo di vestirsi, il lavoro, la propria giornata, il proprio corpo. E tutto, allora, assumeva i contorni mutevoli d’un sogno che aveva il sapore di una realtà che poteva essere realizzata, magari con una formula magica o magari con costanza e impegno o magari in un qualche altro modo di cui non si sapeva ancora nulla. Parecchi erano quelli che cadevano nell’illusione di una polvere magica che potesse rendere concreti i desideri, Danny conosceva un paio di persone che per sopravvivere, ora, dovevano continuare ad iniettarsi chissà cosa in vena per tenere gli occhi aperti: loro, per assurdo, avevano trovato un sogno concreto, fuori di sé, per il quale vivere. Per il quale non *valeva* la pena di vivere, però… però non tutti avevano avuto la forza, o la fortuna di realizzare, almeno in parte quello che avevano sognato.

 

Danny si riteneva fortunato, dopo tutto, anche se si ritrovava in mezzo a suoi ex compagni che erano giunti a un livello tale da essere definiti dei campioni. Lui no, lui non ne aveva mai avuto la stoffa, e lo aveva sempre saputo.

 

Non era mai stato un Hutton, uno con una dote meravigliosa, capace di fare cose incredibili con un pallone fra le gambe.

 

Non era mai stato come Mark, non possedeva neppure un briciolo della sua costanza, della sua perseveranza, della sua sopportazione alla fatica, della sua testardaggine e della sua forza matura.

 

Non aveva la freddezza razionale e ustionante di Price né l’esuberanza egocentrica e velata di Warner. Non aveva lo sguardo limpido e la propensione agli schemi come Ross.

 

Avrebbe potuto essere un giocatore mediocre, addirittura chiamato in nazionale come riserva, probabilmente, vista la scarsa scelta, ma Danny aveva scelto altrimenti.

 

Se era vero che il calcio era uno sport di squadra e che le gambe dei gregari, per principio, valevano tanto quelle dei fuoriclasse non era da lui accontentarsi di sedersi lì e vedere i suoi compagni vincere. In questo comprendeva benissimo l’ira repressa di Warner il quale era e rimaneva il secondo: dietro a Price. Giocava solo se Price non giocava, se s’era fatto male, se s’era rotto qualcosa, o se non aveva voglia. Per uno come Warner, orgoglioso e *bravo*, doveva essere terribile, e terribilmente avvilente avere al proprio fianco uno che considerava inarrivabile.

 

Non era tanto un fatto di bravura, Danny pensò: spesso infatti s’era domandato perché preferissero così smaccatamente l’uno all’altro quando pure Warner aveva dimostrato d’essere un campione all’altezza di una grande squadra. Era stato Ross a spiegarglielo: Price era più controllabile in campo, era più freddo, più razionale, meno emotivo. Forse anche meno spettacolare di Warner, ma questo era un piccolo scotto che potevano pagare in nome di un’eleganza formale più marcata. E poi Price giocava per una squadra europea: ai mondiali era sempre buona cosa far vedere i personaggi che i club esteri si contendevano con cifre tanto alte.

 

Immagine. Soldi. Pubblicità. Orgoglio.

 

Danny scosse appena il capo nell’ampia sala in cui i giocatori avrebbero consumato i loro pasti. Quella, per assurdo, era la vita che lui si era scelto, come procuratore legale. Lui era quello che adesso metteva le mani in questi affari un po’ viscidi che si nascondevano dietro a ogni partita. Era contento, però, almeno lo faceva per persone che conosceva, che stimava, e sapeva bene che se avesse strappato un contratto migliore per Warner, lui si sarebbe dimostrato all’altezza, sempre. E la pubblicità per la Nazionale giapponese, anche, saltava fuori dai giocatori stessi. C’era solo da far sottolineare un po’ a qualche giornalista quanto fosse stato sfortunato Ross, lui e i suoi  problemi cardiaci, eppure, nonostante questo, Ross era un elemento insostituibile per la squadra, per il reclutamento di nuovi giocatori, per lo scoprire nuovi talenti, per essere un ponte tra l’allenatore e i giocatori che erano ancora dei ragazzi, più o meno. Non giocava più sul campo, Ross, ma era come se ci fosse e il pubblico adorava queste storie.

 

Storie vere che pagavano in simpatia e popolarità.

 

Sospirò bevendo il caffè mentre sfogliava il suo giornale che puzzava ancora di inchiostro. L’aria era grigia, immobile, di un’alba che non si era ancora svegliata ma lui era troppo nervoso, in quelle occasioni, per riuscire a dormire.

 

Rivedere i suoi compagni, i suoi amici, le partite, i mondiali! Rise sottovoce: magari avrebbero pure corso il rischio di piazzarsi bene, se non di vincerli! Avevano campioni che giocavano in ogni parte del mondo! Hutton era diventata una stellina brasiliana, Price faceva faville nel campionato tedesco e dicevano fosse ulteriormente migliorato. Tom aveva vinto, con la sua squadra, il campionato francese per i due anni di fila in cui aveva giocato lì. E poi c’era Mark: la sua squadra due volte di fila campione d’Italia, la Champions League, e poi quell’altra coppa europea di cui non si ricordava il nome, una vinta, l’altra perduta in finale, ai rigori. Nelle trasferte europee ormai Mark aveva segnato una decina di gol a Price e sembrava che il suo orgoglio fosse finalmente in pace con il portiere. Aveva letto che, durante l’ultima partita, perduta appunto ai rigori, Mark e Benji si fossero addirittura stretti la mano prima di entrare negli spogliatoi.

 

Se non li avesse visti con i suoi occhi non ci avrebbe mai creduto. E anche se li aveva visti, a volte gli veniva il dubbio che fosse stata una qualche tipo di montatura mandata in scena apposta per … bho, chissà per cosa. Il forum del sito a cui si era iscritto era stato invaso da una valanga di mail sull’accaduto: ma come, quei due non si odiavano? Lenders e Price di solito non si guardavano mai neppure in faccia! Invece stavolta Lenders ha *perso* per colpa di Price e di quei coglioni dei suoi compagni di squadra e gli stringe la mano?!

 

Stava diventando paranoico.

 

Mark era sempre stato così: non glien’era mai importato un accidente della reazione che i suoi comportamenti potevano suscitare nella gente che gli stava intorno. E fortuna che era così perché l’unica volta in cui aveva dovuto coscientemente dimostrare qualcosa a qualcuno, che lui fosse migliore di Hutton e che la borsa di studio per meriti sportivi per entrare nella scuola superiore Toho spettava a lui, li aveva fatti diventare tutti scemi! Aveva ammazzato i suoi compagni di squadra con costanza sadica, con allenamenti infiniti e con una insofferenza rara anche per quello scorbutico di Mark. Avevano rischiato di lasciarci tutti le penne… fortuna che poi la Toho aveva scelto lui se no Danny non sapeva come avrebbe potuto avere Mark come reazione!

 

Se lo ricordava benissimo, come se fosse stato appena ieri, al termine della partita del campionato giovanile contro la squadra di Holiver Hutton, quando avevano *ovviamente* perso. Mark era verde di rabbia. Qualche giornalista aveva pur chiesto a Lenders di stringere sportivamente la mano al suo avversario perché era stata davvero una partita memorabile ma lui non aveva risposto e Danny aveva seriamente pregato che non si mettesse a fare una strage lì sul campo. Era convinto ancora ora che non l’avesse fatta semplicemente perché era troppo provato, troppo svuotato di qualunque tipo di energia per riuscire anche solo a pensare di radunare la sua squadra per poi fucilarla.

 

Danny però si era sentito come se quella fucilazione se la fosse meritata in pieno.

 

Non si erano allenati abbastanza.

 

Non erano mai riusciti a tenere il ritmo del loro capitano e quello era il risultato: la sconfitta per loro e per Mark… Danny anche allora lo sapeva perché Mark ci tenesse tanto a quel campionato. Gliel’aveva detto un giorno in cui era particolarmente abbattuto e Danny non gli aveva dato tregua finché il suo capitano non gli avesse detto cosa c’era che lo turbava tanto. La scoperta che Mark, senza borsa di studio, non avrebbe mai potuto permettersi di continuare a frequentare la scuola superiore, e quindi una squadra di calcio, lo aveva lasciato stupefatto.

 

Non ci aveva mai pensato.

 

Sapeva che Mark era povero però… però a casa sua non si utilizzava il termine ‘povero’ ma ‘meno abbiente di noi’, e anche uno meno abbiente, almeno andare a scuola, almeno … e Mark non poteva non continuare a giocare a calcio! Era un campione, lo si vedeva già! Non potevano lasciarlo da solo! Non potevano buttare le possibilità che esistevano dentro un ragazzo così! Non potevano… eppure quelli della Toho erano stati chiari: la borsa di studio sarebbe andato al capitano della squadra vincitrice.

 

O lui o Hutton.

 

Era come dire: o tutto o niente.

 

Era un’idiozia! Hutton meditava di trasferirsi in Brasile, aveva i soldi per farlo, e di sicuro pagarsi una dannata retta scolastica non sarebbe mai stato un problema! Anche se era un campione non gli servivano soldi. Forse poteva andare bene un riconoscimento, qualcosa, ma una borsa di studio… quella borsa di studio che per Mark era tutto, era la possibilità di andare avanti, di continuare gli studi, di seguitare a giocare a calcio… ma, anche se lo sapeva, era stato solo alla fine di quella partita che Danny si era accorto di quanto valore avesse quella vittoria per Mark. Cosa volesse dire essere *poveri*, o anche ‘meno abbiente’.

 

E aveva intuito cosa potesse essere la vita di uno che non si era mai potuto permettere il tempo di progettarsi un futuro per filo e per segno perché troppo impegnato a correre dietro ogni giorno, a un presente che non era mai clemente, che non lo aspettava mai, che non aveva mai pazienza.

 

Era per questo che Mark aveva imparato a correre. A pretendere. A sacrificarsi. Era per questo che non sopportava gli sbagli altrui tanto quanto non tollerava le proprie mancanze.

 

O tutto o niente.

 

Com’era vivere con quell’angoscia perenne dentro Danny non sapeva neppure immaginarlo. Lo ricordava solo livido di rabbia, verde di furia, sul punto di svenire, o morire, la sua era la faccia di uno che si sentisse sul punto di smettere di vivere, uno che aveva fatto tutto il possibile, e a volte anche di più, per una cosa che non era riuscito ad ottenere.

 

Per fortuna quelli che dovevano assegnare la borsa di studio avevano assistito alle partite, e nonostante il regolamento, avevano visto Mark ed era piaciuto. Avevano scelto lui, nonostante tutto, e Holiver non aveva mai neppure sospettato di aver giocato una partita che per Mark aveva avuto un peso tanto radicale.

 

Ma Mark non parlava molto di sé già ai suoi amici, figurarsi se avesse detto qualcosa a Holiver. Se fosse stato un altro tipo avrebbe cercato di farselo amico, gli avrebbe spiegato al situazione e magari Hutton avrebbe potuto promettergli che, comunque, avrebbe rifiutato alla borsa di studio, che, in quel caso, sarebbe passata automaticamente a lui.

 

Ma una cosa simile non era da Mark. Danny lo sapeva. Ed lo sapeva.

 

Per questo, per una settimana, dopo la sconfitta alla finale del campionato giovanile e prima dell’arrivo della notizia che la Toho aveva scelto comunque Lenders, lui ed Ed erano stati appiccicati a Mark come carta moschicida, l’avevano seguito ovunque, avevano escogitato qualunque trucco, qualunque bugia per girargli intorno e non perderlo mai di vista.

 

Forse era stato un comportamento da ragazzini suggestionabili, e Danny era sempre stato certo, in cuor suo, che Mark, il loro Capitano, non si sarebbe lasciato scalfire da una cosa simile, eppure erano entrambi terrorizzati che Mark potesse fare qualcosa di … irreparabile.

 

Quella era stata la prima e ultima volta in cui aveva davvero avuto *paura* per lui. Aveva avuto la sensazione di stare per perderlo e non era certo che avrebbe potuto sopportarlo. No, non lo avrebbe sopportato, né accettato.

 

Il destino era stato più gentile di quello che aveva pensato.

 

Mark se lo meritava.

 

Mark si meritava tutte le cose belle che la vita potesse dargli, dopo tutto quello che aveva sofferto, dopo tutto quello che aveva vissuto, e la dignità che aveva sempre mostrato.

 

Danny non sapeva se avrebbe avuto la stessa forza, di sicuro non lo stesso coraggio. E la dignità? Aveva amata quella sua dignità, quella forza, quell’affermazione di se’ che pareva passare dal rinnegare il destino che gli era toccato in sorte, senza recriminazioni, senza lacrime. Solo andando avanti, sempre. Era un piccolo dio ai suoi occhi di bambino.

 

E anche ora, adulto, non poteva che stupirsi di quello che aveva fatto e di come l’aveva fatto. E …

 

“Già in piedi Danny? – una voce, la sua, lo fece sobbalzare. Quasi rovesciò la tazza che aveva fra le mani – Alle cinque?”

 

Si voltò verso di lui, non riuscendo a nascondere lo stupore.

 

Mark era in tuta. E sembrava di ritorno da un allenamento.

 

Sì, era sudato. La fronte mostrava, appiccicate, piccole ciocche troppo corte ancora per poter essere tenute indietro dall’elastico nel quale tratteneva i capelli scuri. Aveva gli zigomi lievemente arrossati e la giacca della tuta legata in vita. La maglietta aveva le maniche arrotolate sulle spalle, com’era il suo solito e tutta la sua pelle pareva brillare, lucida, di una leggera patina di sudore.

 

“E tu? In piedi a quest’ora?”

 

Mark si sedette al tavolo con lui chiamando un cameriere. Ordinò qualcosa da bere, una spremuta, un tè, poi si voltò di nuovo verso di lui.

 

“Già. E’ l’ora migliore per allenarsi, così non ho nessuno fra i piedi. Quando si svegliano gli altri, di solito?”

 

Danny scosse il capo con fare pratico.

 

“La veglia suona alle sette, l’orario massimo per fare colazione è un quarto alle otto, ma Ross lo trovi già giù alle sette spaccate. Gli altri arrivano alla spicciolata. Sai com’è, siamo ancora in preallenamento, le partite ufficiali non sono poi così vicine.”

 

Annuì in silenzio anche se, probabilmente, non era troppo d’accordo, poi bevve d’un fiato la spremuta. Per il tè dovette pazientare, perché era bollente.

 

“Quella è tutta la tua colazione? Dovresti mangiare di più, e anche dormire di più. Abbiamo bisogno di te in forma, Mark.”

 

“Sono e sarò in forma, Danny. – soffiò sul tè, palesemente seccato di dover aspettare così tanto per bere – Sai che ho bisogno di dormire poco per essere riposato. E questa non è la mia colazione, sto solo cercando di reintegrare in parte i sali minerali perduti. La colazione la faccio dopo la doccia. Sono uno schifo.”

 

Danny sorrise.

 

“Puzzi solamente un po’, ma sono abituato.”

 

Mark lo fissò con un lungo sguardo curioso, poi si concesse di sorridere.

 

“E così hai deciso di giocare dietro la panchina, eh? Ed mi ha detto che ti occupi della Nazionale, oltre che essere il suo manager.”

 

“Sì. – si sentì arrossire un poco anche se non ce n’era alcun motivo – Lavorare per Warner mi permette di avere ottime provvigioni e un buon lavoro di pubbliche relazioni. Non è difficile ‘vendere’ la sua immagine, come puoi immaginare e non ha neppure un caratteraccio che intimorisca i tifosi. La gente, qui in Giappone, lo adora ed è una bella soddisfazione anche per me. Per il lavoro in Nazionale… bhè, sono un privilegiato, lo sai. Mi conoscono tutti, si fidano di me. Conosco bene i giornalisti che girano intorno a questi eventi e conosco ancor meglio voi, e il nostro allenatore. E’ un lavoro divertente. E almeno non c’è più un Capitano un po’ matto che mi butta giù dal letto prima dell’alba per andare ad allenarmi!”

 

Un sorso di tè, poi un altro. Uno sguardo scintillante, da tigre sazia che si diverta ad osservare il mondo e a metterlo in allarme. Poi un sorriso.

 

“Sono davvero contento che abbia trovato la tua strada, Danny.”

 

Non disse altro. Si alzò e se ne andò.

 

Non lasciò che Danny replicasse perché non *poteva* farlo. Danny era lì e fissava quel posto vuoto di fronte con sgomento e incredulità.

 

Ricordava quel sorriso raro che increspava le labbra del suo Capitano. Ma proprio perché raro era preziosissimo, e non nasceva mai per caso. Ed ora era stato tutto per lui. Un sorriso caldo, rilassato, luminoso. Bello.

 

Per lui.

 

Era felice *per lui*.

 

Quasi non ci credeva. Anche se sapeva che il suo Capitano era sempre stato un ragazzo schivo ma non dal cuore duro, che amava e soffriva come chiunque altro, la difficoltà che aveva nel mostrare la mondo questi suoi sentimenti lo facevano sembrare a volte più cinico di quanto non fosse. Più indifferente. Meno attento.

 

Molte volte, nel passato, Mark gli aveva fatto quello scherzo: lo aveva stupito sbattendogli davanti, improvvisamente, il risultato di una sua profonda sensibilità, un qualcosa che aveva letto in lui, un segno appena, un gesto, un dubbio che aveva portato riverberato negli occhi. E Mark aveva capito… capiva sempre e sempre, quando ne aveva avuto bisogno, era stato lì, con un sorriso appena accennato e la promessa, mai espressa a parole ma che si sentiva, che se avesse potuto fare qualcosa l’avrebbe fatto. Che lui era lì per Danny, se Danny aveva bisogno. E bastava molto meno che chiamarlo, perché lui capiva sempre, e sarebbe stato lì.

 

Lì con lui.

 

Un sorriso per lui: Danny si sentì tornare indietro nel tempo, quando a volte si sentiva come se Mark lo trattasse come un ulteriore fratellino da proteggere, da spronare, di cui essere orgoglioso, da amare. Sì, era stato quello per lui, per molto tempo: un altro fratello piccolo di cui preoccuparsi, però, in maniera diversa rispetto agli altri che aveva. E Danny capiva molto bene perché i suoi fratelli lo adoravano: anche lui lo adorava, adorava quel fratello grande che si occupava così di lui, che riusciva a farlo sentire tanto speciale con una sola occhiata.

 

Mark, la tigre, diventava un gattone pronto a fare le fusa solo tra le mura sottili della sua casa. Ma il suo cuore per Danny era sempre stato aperto e di questo nessuno avrebbe potuto nutrire alcun dubbio.

 

E neppure lui.

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