Il battito della notte

di Aranel

 

                        “…Assomiglia in tutto al principe delle nubi:

                                                                         esiliato in terra, fra gli scherni,

                                                                        le sue ali di gigante gl’impediscono d’avanzare.”

                                                                                                          C.Baudelaire, ‘L’Albatros’

 

 

START

 

Lui era bellissimo.

Tutti attendevano quell’ora, la sua ora.

L’ultima porta in fondo si apriva lentamente, annebbiata da fumi deliziosi e da giochi di luce rossastra, mentre il suo corpo, prima soltanto una sagoma, avanzava lentamente verso il centro della sala, catturato da occhi famelici e da labbra umide tremanti.

Lui era una leggenda.

Guardando tutti e nessuno, come danzatore nell’aria saliva sul suo podio e lentamente, mentre la sua figura si ergeva verso l’alto, le ombre scomparivano alle sue spalle, la nebbia si diradava e il silenzio dell’attesa invadeva tutto.

Musica.

Ed egli, come un serpente, attirato dal flauto magico del fachiro, iniziava a muoversi, a fendere l’aria con le sue braccia taglienti, ad accarezzare profumi invisibili, ad unirsi impercettibilmente con quella melodia che lo penetrava fin nel profondo.

Chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare. Chiudeva gli occhi e dimenticava ogni cosa.

Si offriva spontaneamente sull’altare sacrificale del desiderio per accendere desiderio e per non soddisfarlo… così, in questo modo, tutti l’avrebbero ricordato per sempre.

Dimenticava i sospiri attorno, le grida, le voci stridule di quel popolo di assetati, dimenticava le parole dure e volgari che gli venivano urlate contro, dimenticava l’egoismo, dimenticava il motivo stesso per cui si trovava lì.

E ballava. L’unica cosa che era capace di fare, dando ordini al proprio corpo, dominandolo ed amandolo al tempo stesso, il suo corpo, l’unica cosa che gli era rimasta, il resto gli era stato portato via dall’asprezza della notte.

Chiudeva gli occhi e ballava, simile al volo di una farfalla, che con il dolore delle ali spezzate riesce comunque a raggiungere il cielo.

Ballava e si perdeva.

 

Ed io, nella solitudine della mia stanza, nell’affanno del mio proprio respiro, nella droga delle immagini, cadevo in ginocchio dinanzi al ricordo di quell’altare, rivivendo nella mia mente il suo sacrificio, quell’angelo biondo immolato agli occhi asettici della gente comune.

Anch’io come lui, nel istante più intenso della nostra bellezza, chiudevo gli occhi, lasciavo scivolare i pantaloni sulle cosce, e raggiungevo la mia parte segreta con le dita.

Gridavo nel silenzio, gridavo dentro di me, mentre le luci della notte e la musica violenta rimbombavano ancora nella mia testa, muovevo la mano con più forza quando la sua immagine compariva davanti ai miei occhi e lo vedevo ballare dinanzi a me, offrirsi in quella sua innocenza spezzata senza la pretesa di essere amato.

Con l’altra mano stringevo le sue foto sparse sul pavimento, quasi fino a strapparle, come per reggere il dolore che mi provocava la sua assenza, come per far fronte al piacere che, grazie a lui, saliva attimo dopo attimo nel mio corpo, corpo che si stava spezzando.

Gemevo nella notte, lontano da tutto e da tutti, terrorizzato che qualcuno potesse sentirmi e contaminare quel mio spicchio d’intimità.

“Cosa stai facendo?” “Pervertito!” “Sei la vergogna della nostra famiglia!”
Urla, urla di gente comune che non riesce a comprendere, che non sa cosa significhi ‘amore’.

Non m’importava, guardavo ancora le sue foto, mi ripiegavo su me stesso e muovevo più forte la mano.

Esplodevo e lì finiva tutto.

 

Stremato. A terra.

Lui, la mia ossessione. Lui, la mia illusione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRACK 1: “Sweet dreams”

 

La notte che lo incontrai per la prima volta era una notte di pioggia.

Alle nove di sera ero ancora apaticamente seduto sulla poltroncina della mia camera da letto, tra le mani l’ultimo numero di Spider Man e attorno a me il silenzio.

Non avevo uno stereo, non avevo mai voluto possederne uno, odiavo i rumori e mi dava fastidio la musica ad alto volume, quando la sentivo perdevo la testa, ed io detestavo perdere la testa.

“Controllati!” “Controllati!” “Controllati!”
Il Generale (così chiamavo con disprezzo mio padre) me lo ripeteva sempre, lo gridava, ossessivo come il martello pneumatico della discoteca, lui, con i suoi ordini senz’anima, capace soltanto di inaridire ogni più piccola lingua di libertà.

E mia madre, pallida e segaligna signora che lo assecondava in silenzio, annuendo, aveva imparato il suo ruolo di genitore e di educatrice con i video illustrativi della ‘Sperling’, comprati a 2 sterline in qualche anonimo mercato dell’usato.

Credo di non averla mia vista prendere una decisione in vita sua, aveva imparato ad essere il soldato, o meglio l’araldo di mio padre, aveva imparato il suo linguaggio e non seguiva altro che il percorso da lui prestabilito, una sorta di campo di addestramento domestico che andava dai fornelli della cucina alla poltrona del salotto, dove sfavillava l’orgoglio del mio genitore, un vecchio televisore in bianco e nero che era riuscito a strappare per pochi bigliettoni ad una sconosciuta asta di ricchi falliti.

Ma il verbo del suo comando era comunque entrato nella mia testa, e la convinzione di essere un’ameba senza emozioni, ogni giorno prendeva sempre più possesso di me.

Non avevo amici, forse soltanto uno si poteva considerare tale, Harry, un ragazzo che per un po’ di tempo aveva bazzicato casa nostra, attirato dal profumo languido delle mutandine di mia sorella, una rispettabilissima zoccola che, rispettabilmente, si era fatta mettere incinta dal suo datore di lavoro, il dirigente di una piccola azienda di trasporti che si muoveva per tutta l’Inghilterra. Così lei, appena aveva potuto cogliere l’occasione, era emigrata nel cuore della City, dimenticandosi dopo poco tempo della sua famiglia di White Chapel.

Io ed Harry eravamo rimasti amici, fortunatamente era un ragazzo intelligente, aveva capito quasi fin da subito come funzionavano le cose a casa nostra, e aveva deciso di non impelagarsi in una partita persa.

Quando capitava dalle parti nostre, mi fischiava alla finestra, convinto (a ragion veduta) che mi avrebbe trovato in casa, così uscivamo a fare un giro.

Uscire di casa mi rinvigoriva, riattizzava in me il mio naturale istinto di ribellione, che mio padre di giorno in giorno s’impegnava a buttare giù, cercando disperatamente di tracciare un percorso obbligato anche per me.

Ma io quel percorso non lo volevo, dentro di me desideravo spezzare tutti gli steccati e mandare a farsi fottere ogni limite, ogni imposizione, ogni regola.

Harry lo sapeva, aveva saputo ascoltare i miei silenzi, immagino, anche perché io parlavo poco, così mi portava fuori a fare le cose più impensate.

Impensate per me, perché per tutti gli altri erano assolutamente naturali.

Prendevamo la sua macchina e come prima tappa, ogni volta mi portava fuori dalla sonnolenta e grottesca vita di quartiere per raggiungere il cuore pulsante della città, lei, Londra.

 

E’ stato proprio per colpa o forse grazie ad Harry che quella sera entrai per la prima volta nel luogo che presto diventò la mia ossessione e la mia linfa vitale.

“Avanti, muoviti scemo! Se non sei ancora vestito, fallo e scendi, ti aspetto!”

Mi affacciai alla finestra, skazzato e annoiato e scossi la testa.

“Su, ragazzino, si può sapere che cazzo stai a fare il sabato sera a casa?” mi guardò per un istante “Sbrigati, andiamo a Londra!”

Londra…

Sentii il cuore sussultare quando Harry la nominò, eppure ci vivevo anch’io in quella città, a soli venti minuti di tram dal centro, ma la Londra di cui parlava Harry era una Londra speciale, un mondo a parte in continuo cambiamento, era la city, era il cuore pulsante della vita, erano i colori, la musica, la paura di perdere il controllo, la voglia di farlo, era la moda, era il fuoco risucchiante degli anni 80 che stavano per uscire dall’utero materno.

“D’accordo vengo!” gli gridai.

Lo vidi ridere. Lo faceva sempre quando riusciva a convincermi di qualcosa.

“Ora scendo!”

Mi vestii rapidamente, lanciando un’occhiata non troppo indugiante allo specchio, tanto io non attiravo nessuno, non sarei uscito per rimorchiare.

“Io esco!” dissi, dirigendomi verso la porta di casa.

Mia madre non si voltò neppure, mio padre mi guardò con aria di forte rimprovero… il soldato usciva liberamente dalla caserma.

Si… la libertà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRACK 2: “Lust for life”

 

“Sarà alta la musica?”

“A tutto volume!”

“No, cazzo dai, torniamo indietro!”

“Ma vaffanculo Pit, flippati meno con tutte ste paranoie! Stasera siamo usciti per divertirci e ci divertiremo!”

Per tutta risposta prese una cassetta dal cruscotto e la infilò nello stereo.

“Iggy Pop! Un diavolo!” disse, mentre i suoi occhi si spalancavano come se fosse stato colto da un delirio di maniacale follia.

Non ci feci caso. Ora lo conoscevo piuttosto bene, e sapevo che si esaltava per tutto ciò che sapeva di rumore, amava stordirsi e ingozzarsi del ruggito di una chitarra elettrica.

In quanto al resto… non sapevo chi fosse Iggy Pop.

“Guarda qui!” mi disse d’un tratto passandomi una rivista.

Vidi un tizio sulla copertina… infilato in una specie di tuta maculata, aderente fino a mostrare cosa ci fosse sotto quel vestito, un grosso paio di stivali bianchi contornati da strasse ai piedi, il volto magro e segaligno, corrucciato e attento, con tanto di cipria rossastra sulle guance, gli occhi contornati da una fina eye-liner nera, e le labbra semilucide di brillantini di un rossetto color porpora.

“Ma questo è una checca, questo è frocio!” esclamai.

“Eh no mio caro, no… c’è una bella differenza tra essere froci ed… essere lui!” sospirò come estasiato “Lui è il futuro, è quello che saremo… la senti? La senti l’aria del nuovo che avanza?
Musica stordente, nuovi sounds, colori forti e abiti estremi, libertà totale, fusione di sessi, e tanto, tanto arrapamento!” rise “Ci puoi giurare!”

Credevo fosse impazzito.

Non lo vedevo da circa un mese e sembrava aver subito un cambiamento radicale.

L’ultima volta ascoltava ancora i Beatles e portava i capelli a caschetto, ora, sembrava essere appena uscito da un circo, negli occhi una strana follia, usava parole semi-profetiche, come se fosse diventato un guru del domani e… profumava, Cristo quanto profumava! Si era sparso addosso profumo e brillantini a volontà, che per un istante mi preoccupai a stare in macchina con lui.

“Il nuovo che avanza, il nuovo che avanza! Stasera, amico, te lo dico io… ci divertiamo, cazzo se ci divertiamo!”
Gridò e spinse l’acceleratore al massimo.

“La City è cambiata e ora sta a noi cambiare con lei!”

I miei ultimi deboli timori svanirono quando la mia iride fu completamente invasa dalle luci intermittenti di Piccadilly Circuì, mentre la musica di Iggy Pop violentemente iniziava a penetrare in me.

Mi voltai per un istante verso Harry e vidi che mi stava guardando a tratti. Scoppiò in una risata.

“Pronto a perdere il controllo?”

“No, cazzo dai, Harry, sai che così non mi piace… mi spaventa!”

Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso malizioso.

“Avrai poco da spaventarti quando… saremo lì dentro!”

Guardai dinanzi a me, proprio nel punto che il mio amico aveva indicato con la mano.

Feci appena in tempo a vedere un gigantesco cartellone rosso e viola con su scritto “Doll’s House”.

“Si… la casa delle bambole…” disse Harry “E di bambole ce ne stanno… Pit, stasera sarà per entrambi una notte speciale!”

Non ebbe mai così ragione come in quel momento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 3: “I like chopin”

 

 

“Eccolo… il Futuro!” disse Harry, esalando un profondo respiro.

All’ inizio, non appena entrati nel locale, mi portai istintivamente le mani alle orecchie.

Quel rumore assordante si era schiantato contro di me, stravolgendomi dentro, scacciando via dalla mia anima insonnolita il silenzio.

Harry aveva davvero strabordato quella volta, al contrario delle volte precedenti in cui si era un po’ più limitato, forse rendendosi conto che io avevo bisogno di tempo per abituarmi alla vita risucchiante della City, per passare dalla calma stagnante del mio quartiere, e dalla gabbia mentale di mio padre all’apertura violenta del cuore della città.

Mi sentii come sul picco di un’immensa scogliera, il terrore e una sorta d’inebriante follia si stavano impossessando di me, paura di cadere e voglia di buttarsi, il vento contro il mio volto gelido e tagliente, la libertà del suo respiro.

Mi girò la testa e per un istante vidi tutte le luci confondersi in una grande esplosione multicolore, poi, quando ripresi coscienza di dove fossi e sentii il calore di Harry accanto a me, la paura scomparve, le emozioni si districarono, prendendo ognuna il proprio posto ed io, assalito da un’improvvisa droga delirante, iniziai a stare bene.

Alzai il braccio e gridai forte, buttando fuori tutta la mia voglia d’essere che aveva ripreso a svegliarsi.

Harry mi guardò e gridò con me.

C’incamminammo verso la pista e d’improvviso mi parve d’avere cento occhi, riuscii a guardare tutto ciò che era intorno a me, fino ad ogni angolo.

La gente che ci camminava accanto, i cubi sopraelevati su cui danzavano splendide donne seminude, i bicchieri dei cocktails che roteavano in aria, le luci colorate, tutto, tutto iniziò a ruotare intorno alla mia testa come se al posto degli occhi avessi una cinepresa mobile impazzita, colta dal desiderio di riprendere tutto, ogni frammento.

Sentii Harry afferrarmi per un braccio e trascinarmi in avanti, finché non raggiungemmo l’altra parte del locale, e lì ci fermammo.

“Questo è il pezzo migliore!” mi disse, dandomi una botta col gomito e indicandomi un largo palco proprio davanti ai miei occhi.

Su di esso, circondata da una luce azzurra e argentata danzava lentamente e sensualmente una splendida ragazza bionda, pareva sfiorare l’aria semplicemente col suo corpo, nessuno dei suoi movimenti sapeva di stonato o di pesante, era leggera, simile al fumo che la circondava, rendendo ancor più surreale quello spettacolo.

Sentii Harry mugugnare qualcosa, non era tanto difficile indovinare cosa stesse pensando in quel momento, ma non vi prestai attenzione, non riuscii neppure a prestare attenzione alla ragazza, ciò che davvero mi rapiva era  il luogo stesso, qualcosa d’incredibile per i miei occhi abituati al grigiore di White Chapel, qualcosa che sapeva davvero di nuovo che avanza.

Piacere per lo sguardo e piacere per la mente, calore per il corpo, inebriamento dei sensi, confusione nella confusione delle sfumature e delle luci soffuse, abbandono rassegnato e consenziente sotto il rintocco senza respiro del martello pneumatico, e la bellezza… la bellezza in ogni sua forma, offerta, regalata, apparentemente libera, quasi disperata…

Ogni persona, ognuno là dentro subiva il fascino di trovarsi sulla linea di confine tra morbosità e innocenza.

E questo era perdere il controllo.

 

Feci per voltarmi, attratto dai borbottii di Harry, ma d’improvviso accadde qualcosa… e l’atmosfera si fece silenziosa.

Silenzio nella mia mente, certo, o forse… musica unicamente mia, perché tutti stavano parlando e la musica non cessava di picchiare nelle casse.

Eppure, senza conoscerne la ragione, trattenei il respiro, mi voltai lentamente alla mia destra e intravidi una zona del locale più appartata, offuscata da un leggero fumo bianco, dietro il quale si poteva intravedere una porta.

Laggiù vi erano dei tavoli, da ognuno dei quali usciva una luce diversa. Dei piccoli fari colorati erano posizionati a terra, rivolti verso l’alto e creavano una sorta di gabbia impalpabile che si ergeva fino al soffitto.

Delle persone, sedute ed in piedi, erano voltate anch’esse in attesa verso la porta, immobili, come se da lì a poco, fosse accaduto qualcosa di speciale, incredibilmente speciale.

D’un tratto l’aria sembrò vibrare un poco, la musica sembrò affievolirsi e il silenzio occupò sempre di più la mia mente.

La porta si aprì ed io intravidi la sagoma di una persona venire in avanti, verso il tavolo centrale di quella saletta, il più grande di tutti, illuminato da una luce rosso-dorata .

La gente si mosse un poco, facendo largo a colui che doveva passare, io, come spinto da una forza maggiore sentii l’istinto di guardare più a fondo.

Vidi la sagoma giungere fino al bordo del tavolo, e nell’istante in cui poggiò un suo piede sopra di esso, la nebbia bianca si diradò, lasciando spazio alla sensuale luce porporina.

D’improvviso sentii il mio cuore iniziare a battere con forza, i miei occhi non riuscirono a staccarsi da lì, e più la nebbiolina si diradava lentamente, più il mio respiro diveniva faticoso, quasi doloroso.

Salì completamente sul tavolo, la luce l’illuminò del tutto, ed i miei occhi risucchiarono quell’immagine.

Non sentii più musica.

Ed egli iniziò a ballare.

“Questo è il Paradiso!”

“Si… è il Paradiso…” sussurrai, rispondendo al mio amico.

Fu la prima volta che lo vidi. Fu la prima volta che si alzò in volo per me.

Il suo corpo si muoveva dolcemente, quasi timoroso di ferire l’aria intorno, sembrava che le sue braccia amassero l’idea di carezzare i colori dentro i quali era prigioniero, il suo volto risplendeva sotto la luce dorata, i suoi sorrisi… le sue labbra delicate ridipingevano la notte, i suoi capelli biondi di angelo caduto solleticavano, abbandonati, le spalle ampie e i suoi occhi… oh no… quelli non erano gli occhi di una macchina senz’anima, il suo sguardo correva lontano, ed era triste, forse per questo motivo, incredibilmente bello.

La musica vibrava, non fuori, ma dentro di lui e il suo corpo aveva preso ad assecondarla, ogni suo singolo muscolo era teso all’ascolto, a quella dea invisibile che lo rendeva vivo; d’un tratto chiuse gli occhi ed inclinò un poco la testa di lato come un animale rassegnato e ferito, allargò le braccia sfiorando con le dita sottili i fasci di luce che pulsavano verso l’alto e impercettibilmente… sorrise.

Questa fu la cosa più bella che mi regalò. Un sorriso.

D’un tratto spalancò gli occhi, qualcuno aveva sfiorato il suo petto, per un istante mi sembrò che stesse guardando la donna sotto di lui con una luce di rimprovero negli occhi, poi però il suo volto cambiò e sorrise ancora, un sorriso diverso, malizioso, per gli altri e non per se stesso, finto e costruito.

Dimenticò la sua poesia.

Si ricordò che si stava vendendo.

Da quel momento tutto cambiò in lui: la dolcezza divenne aggressione, la malinconia, banalità e il suo sguardo smise di scrutare lontano e si posò sui suoi clienti, accontentandoli per ciò che avevano pagato.

Una moltitudine di mani fameliche si sollevarono verso l’alto, tutte protese a toccarlo, ed egli iniziò a giocare con loro… si allontanò un poco, si mosse ancora, danzò sensualmente, finché non si diresse ancora verso quelle persone, e lasciò che uno ad uno si prendessero un frammento del suo corpo.

Fui colto da un moto di rabbia, mi staccai dal palco su cui stava ballando la ragazza e mi diressi verso di lui.

Avrei gridato contro quella gente, avrei voluto difenderlo.

Ma quando raggiunsi il tavolo ed alzai gli occhi, ogni mia azione perse consistenza.

Lo vidi proprio sopra di me, e fu allora che il suo fuoco mi contagiò, in quell’istante incrociò il mio sguardo e seppe gelarmi col chiarore dei suoi occhi.

Non riuscii a muovermi da lì, lui sorrise, si morse le labbra e riprese a ballare, guardando in alto.

Strinsi forte le mani sul bordo del tavolo, e tutte le persone attorno a me scomparvero, udii nuovamente quella melodia, egli mosse il corpo con furore, con desiderio inappagato, si liberò anche dell’ultimo dei suoi vestiti e lo vidi finalmente bruciare.

Crollò in ginocchio dinanzi a me, ansimante, imperlato di sudore, selvaggio nel guardarmi.

Non abbassai gli occhi, sostenni il suo sguardo, sebbene sentissi dentro di me il cuore esplodere… le sue labbra così vicine alle mie, il suo fiato sul mio volto… le grida… la musica… il ritmo del mio respiro… il battito della musica… il ritmo della tensione… il battito della musica… il ritmo della danza rossa della fiamma… il battito della musica… ammaliante… inebriante… insistente… continuo…

Buio.

Barcollai un istante e mi ripresi subito.

Quando riaprii gli occhi l’avevo perso, potei soltanto intravedere la sua sagoma dirigersi verso la porta da cui era uscito e la sua schiena nuda scomparire offuscata dietro la nebbia bianca.

 

“Pit?”

Mi voltai lentamente.

Dovevo avere una faccia da ebete perché Harry scoppiò in una fragorosa risata.

“Che cazzo ti prende?”

Non risposi, o almeno non subito. Mi sembrò di essere appena uscito dai lembi di un sogno.

“Chi è quello…?” sussurrai con un filo di voce.

Harry mi guardò interrogativo e perplesso.

“Quello chi…?”

“Lui…”

Neppure io sapevo che diavolo stessi dicendo, ma sapevo bene di chi stessi parlando.

“Lui, Harry… lui…” ripetei, indicando con la testa il tavolo davanti a me.

“Ah… il ballerino che ti sei messo a guardare?” rispose, divenendo improvvisamente serio.

Annuii.

“Pit…” iniziò “Devo forse pensare che sei diventato frocio?”

Il suo tono di voce alterato sembrò destarmi per un istante.

Mi allontanai da lui bruscamente.

“Volevo solo sapere come si chiamava, cazzo! Grazie tante Harry!”

“Ehy, ehy, aspetta, dove stai andando?” mi rincorse “Amico, scusami, sono solo un po’ meravigliato, capiscimi! Solitamente qui si guardano le ragazze, insomma… almeno noi uomini, tu invece… tu invece per tutta la serata…”

“Dimmi solo come si chiama…” sussurrai interrompendolo.

Volevo andarmene da lì. Harry era assolutamente in imbarazzo e io non avevo voglia di dargli ulteriori spiegazioni.

La musica cominciava a darmi fastidio…

Vidi Harry avvicinarsi lentamente a me, non era più ironico, mi stava scrutando seriamente.

“Vuoi sapere chi è? Bene, te lo dirò…” sospirò “Lo chiamano Giglio della Notte, ed è forse il ballerino più conosciuto nei locali notturni di Londra, è il migliore ecco… una specie, una specie… cazzo sì, di leggenda per le donne che frequentano questi posti…”

“Giglio della Notte…” mormorai, voltandomi a guardare in direzione della porta dalla quale era uscito.

“Ed è anche conosciuto per… i suoi comportamenti un po’ particolari… la polizia ha già avuto a che fare con lui un paio di volte.”
Mi voltai a guardarlo e per la prima volta vidi sul volto di Harry un’ombra di preoccupazione.

“Quali comportamenti?”

“Beh… scelte sessuali, ecco… scelte molto estreme… vita molto estrema, roba da City, Pit!” rispose, cercando di smontarmi.

“E’ il nuovo che avanza, no Harry?”

Fu sorpreso da questa mia risposta.

Era buffo: lui, impomatato fino all’ultimo dei suoi capelli, vestito di lustrini e con mille parole in bocca, sembrava essere divenuto improvvisamente grigio, impaurito da qualcosa che forse non conosceva affatto, e che forse non aveva mai capito.

A me invece non importava, non importava affatto… la polizia, la morale, le sue scelte…

Quella notte avevo visto forse la cosa più bella che mai mi era capitata nella mia vita, e quell’angelo maledetto mi aveva fatto bruciare di qualcosa che credevo di non avere più.

Qualcosa era cambiato nel mio cuore…

“Dai, Pit adesso andiamo, altrimenti chi lo sente tuo padre.”

“Si, Harry, andiamo… c’è Iggy Pop in macchina che ci aspetta!”

Non rispose. Ci avviammo in silenzio verso la porta d’ingresso, mentre le luci dietro di noi cominciavano a spegnersi.

Fuori albeggiava.

Respirai profondamente quella mattina. Sorrisi. Avrei voluto guardarmi allo specchio. Sicuramente vi avrei scovato un’immagine diversa.

 

Gli anni ’80 erano alle porte, ma la mia rivoluzione era già iniziata.

 

 

Track 4: “perfect day”

 

Quella notte Harry non ebbe voglia di scherzare lungo la via del ritorno.

Solitamente parlava a ruota, commentava, raccontava le sue avventure, sparava nuove, altisonanti teorie.

Restammo in silenzio per tutto il tempo, ognuno immerso nei propri pensieri. Io guardavo l’alba crescere nel cielo e i colori fuggire via dal finestrino, ma in realtà, non riuscivo a vedere nulla.

Ci eravamo da poco lasciati alle spalle le luci del centro, ma io ero ancora lì, in quel locale, in mezzo a quella girandola di suoni, sotto ai movimenti divini del suo corpo, a respirare i miei nuovi desideri.

Sorrisi e per la prima volta non ebbi paura di tornare a casa, non pensai minimamente alle reazioni di mio padre, mi leccai le labbra… sarei rientrato e sarei andato diretto nella mia camera a stendermi sul letto e a tirarmi giù i pantaloni, per potermi finalmente concedere ciò che avevo desiderato fare per tutto il tempo, quella notte.

Languida è l’aurora…” pensai, mentre mi accoccolavo sul sedile e chiudevo gli occhi.

Poggiai con soddisfazione la mano sul mio pacco, lo sentii duro e pensai ancora una volta a lui.

Ero gay? Checca? Frocio? O più consonamente detto, ‘Scomodo Omosessuale’?

Forse. Ma non me ne importava granché. Fatto sta che un uomo me lo aveva fatto diventare di marmo, ma lui… non era un uomo qualunque, lui era il Giglio della Notte, probabilmente era anche una creatura irreale, forse tutto era stato semplicemente un sogno, e di lì a poco mi sarei svegliato in mezzo al puzzo di casa mia e tra le urla di mio padre, nostalgico dei comandi di guerra.

Intanto però, in un breve frammento di tempo, avevo stranamente e per la prima volta trovato me stesso.

“Pit! Ehy Pit!”

Sobbalzai. Ero completamente intorpidito e i miei occhi erano ancora annebbiati dal sonno e dalla stanchezza.

Sentii Harry scuotermi con più forza, mi sollevai a fatica.

“Mmm… che c’è?” biascicai.

“Siamo arrivati a casa tua, dai, scendi!”

“Uhm, si, ok…”

Saltai giù dalla macchina e vidi che era praticamente giorno.

Mio padre mi avrebbe ammazzato. I miei ventun anni li avrebbe già considerati cenere per il fuoco, povera, inetta gioventù bruciata!

“Allora ci vediamo!” concluse Harry, rimettendo in moto la macchina.

“Si… ehy no, aspetta!”

“Beh… che vuoi?”

Mi riavvicinai allo sportello un po’ barcollante, vidi il suo volto stanco e annoiato. Sembrava un po’ teso.

“Senti, un favore… ti ricordi quel lavoro di cui mi avevi parlato?”

“Quello della fabbrica?”

“Si, si quello… è sempre valida l’offerta?”

Mi scrutò attentamente. Erano passate settimane da quando me lo aveva offerto, un posto da operaio in una fabbrica che produceva infissi, ma io non gli avevo detto né si, né no, semplicemente non me ne importava, semplicemente vegetavo e non trovavo un motivo per cui dover andare a lavorare.

“Come mai t’interessa ora?” mugugnò.

“Ho bisogno di fare qualcosa, Harry, il lavoro non mi spaventa, con le mani sono bravo e soprattutto…” mi voltai verso casa mia “me ne voglio andare, i vecchi sono out e mio padre non lo reggo più!”

Strinsi i pugni lungo i fianchi, sperai di essere stato convincente.

Harry rimase in silenzio per un istante, poi annuì.

“Vedrò cosa posso fare. Sono passate due settimane da quando te l’ ho proposto e può essere che abbiano già trovato qualcun altro, ma proverò a chiedere!”

“Quando lo posso sapere?” dissi nervosamente.

“Uno di questi giorni…” rise “Non hai lavorato per una vita, potrai aspettare qualche ora!” mise nuovamente in moto la macchina “Tuo padre non ti trasformerà in polpette per cani nel giro di quarantotto ore!”

“Ehy Harry aspetta! Quando ci rivediamo?” gridai, vedendolo andar via.

“Presto!” rispose, salutandomi con la mano dal finestrino.

“Presto…” mormorai “Che sia davvero presto… io qui non ci voglio stare…io, ho bisogno della City.”

 

Entrai in casa come un ladro, ma a quanto sembrava non dovevo temere nulla, era tutto immerso nel silenzio, m’infilai rapidamente nella mia stanza e mi gettai sul letto.

Strinsi forte il cuscino tra le braccia, scalciai come un pazzo e soffocai i miei gridolini tra le lenzuola… sembravo una checca isterica o semplicemente un bambino che, senza una ragione, stava esplodendo di gioia.

Poi mi voltai a pancia in su, e mi misi a fissare con aria sognante il soffitto.

“Ho bisogno di soldi… soldi, si… ho bisogno di soldi per farti ballare per me…”

Risi ancora, sentii il mio petto sconquassato dai sussulti, non ridevo così da tempo, non sentivo un fuoco talmente distruttivo da molto ormai, finché mi bloccai di colpo e in religioso, sacrale silenzio, feci per la prima volta l’ossessivo gesto che da allora mi accompagnò a lungo.

Avevo atteso quasi dieci ore per potermela fare, quindi con estrema soddisfazione mi calai i jeans fino alle caviglie e passai la mia mano sopra i boxer… erano roventi.

Come chiusi gli occhi la sua immagine mi ritornò di colpo alla mente… no, non era stato un sogno e non c’era bisogno di destarsi da niente.

Il suo corpo, i suoi movimenti, la forza che metteva nel suo ballo mi avevano infuso un grandissimo senso di libertà, intenso, violento, da far esplodere.

“A..ah…”gemetti, quando finalmente feci scivolare la mano sotto le mutande.

Dio quanto lo desideravo…

“Giglio della Notte… questa è dedicata a te!”

 

Fuori aveva iniziato a piovere, e presto anche tra le mie dita sgorgò la pioggia.

Come le nubi ingrossate d’acqua che d’improvviso si liberano nel cielo, io, una volta raggiunto l’orgasmo, avevo provato lo stesso senso di leggerezza.

Le gocce rigavano i vetri e dietro di esse i miei occhi stanchi da una notte in bianco, e drogati da qualcosa che non avevo mai visto, immaginarono ancora… White Chapel colorata a festa, un grande immenso bordello pieno di gente urlante e ubriaca, e mio padre… ah mio padre… il primo attore di un enorme carro di maschere, che gettava al popolo affamato le sue mostrine di guerra, mentre mia madre, con il suo sorriso da ebete felice lanciava petali di rosa per coprire l’asfalto grigio.

Quale dolce visione!

Quello che non può immaginare un figlio!

Ed io, lentamente lasciavo glorioso i colori del mio quartiere per non farvi più ritorno, e mi dirigevo verso una luce rosso-dorata alla fine della strada, mi dirigevo verso i suoi capelli biondi e il suo volto d’angelo distrutto, e lui se ne stava lì, immobile ad aspettarmi, come sulla soglia di un’altra vita.

Vidi un’altra goccia strusciarsi contro il vetro…

Quello… quello sì che sarebbe stato un giorno perfetto!” pensai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 5: “the wall”

 

“We don’t need education… We don't need no thought control…”

 

“Peter! Peter!”

Colpi alla porta.

“Peter! Alzati bastardo!”
Colpi ripetuti e violenti.

“Papà…”

 

“We don’t need education…”

 

“Peter!”
Mi diressi verso la porta ed aprii l’uscio.

“Papà ho trovato lavoro!”

Un pugno in faccia

 

“We don't need no thought control.…”

 

“Sei una merda!”

Era ubriaco. Si reggeva a malapena in piedi, ma la forza per picchiare non gli mancava. Si poteva sentire l’odore dell’alcool impregnato su tutti i suoi vestiti.

“Sei una vergogna!”

Si avventò su di me come una furia e mi tirò su per il colletto della maglietta.

Ci guardammo per un lungo istante, poi, nonostante il rivolo di sangue che mi scorreva accanto al labbro, riuscii a sorridere… in un ghigno.

 

“Teachers, leave the kids alone!”

 

“Ho trovato lavoro papà…”

Scalpitò, mugugnò ancora qualcosa, grugnì, poi mi colpì ancora.

“Tu… tu… tutta la notte là fuori!”
Risi e gettai all’indietro la testa.

“Ho trovato lavoro, si… devi credermi…” continuai ridendo.

 

 

“All in all it's just another brick in the wall.”

 

 

“Tu non sei un soldato! Tu non sei un soldato!” gridò, fuori di sé.

“No, papà non sono un soldato! Non sono un  soldato!”

 

“Another brick in the wall…”

 

Si voltò colmo di rabbia verso di me.

“Bambino senza palle…!” sibilò, prendendomi nuovamente per la collottola.

Arricciai il naso.

“Cos’è stavolta papà? Whisky da quattro cents oppure ti sei potuto permettere un bicchierino di Jack di lusso?”

 

“Another brick in the wall…”

 

“Tua madre ne morirà… sei la nostra vergogna!” la sua voce sembrò tornare ad essere più chiara. Pareva consapevole di ciò che stava dicendo.

Non sopportavo più vedermelo addosso in quel modo, e dover subire la sua prepotenza e la sua rabbia di ubriaco… stava distruggendo tutto, stava contaminando la scia di sogno che mi ero riportato a casa.

Mi dimenai, cercando di allontanare la sua presa, ma lui strinse più forte e mi tirò contro di sé.

“Ho incontrato il tuo amico oggi, sai? Sì, sì proprio stamattina, dopo che ti ha riportato a casettina, sai? E’ un po’ senza palle il tuo amichetto e non ci ho messo tanto a farlo a parlare… sono un padre premuroso io…”

Mi sentii gelare. No, non doveva accadere, non Giglio della Notte, non doveva contaminarlo, nelle sue mani sarebbe avvizzito.

“E sai cosa mi ha detto?”
Il suo sguardo brillò di una liquida luce giallastra, l’odio nei miei confronti e l’alcool nelle sue vene accrebbero il suo potere.

“Mi ha detto che hai sbavato come una ragazzina davanti ad un uomo che ballava nudo!”

 

“Leave the kids alone!”

 

“Frocio!”

 

“Leave the kids alone!”

 

“Frocio!”

 

“Leave the kids alone!”

 

“Sì papà l’ho fatto!” gridai dopo aver subito i suoi colpi e le sue ingiurie.

Mi alzai di scatto in piedi nonostante il mio corpo fosse dolorante e con rabbia mi gettai su di lui, spingendolo fuori dalla porta.

Egli perse il controllo e andò a sbattere contro la parete di fronte.

Feci lo stesso che lui aveva appena fatto con me.

“E adesso ascoltami bene, vecchio… io non sono un soldato e questa casa non è una caserma, d’ora in poi è finita la tua dittatura di folle ed io non sottostarò più né a nessuna tua regola, né a nessuna tua pazzia, mi hai sentito bene? Hai sentito, Generale?” gridai, sbattendolo ancora contro il muro “Tu mi volevi morto, come hai fatto morire lei…” dissi ancora, lanciando un’occhiata a mia madre che aveva osservato la scena in silenzio, pallida più del solito, tremante, in disparte “Io non sono così, io non lo sarò mai! Io sono vivo!”

Lo lasciai andare e mi diressi nuovamente verso la mia stanza, pronto a fare le valige.

Mi girai ancora una volta verso di lui, prima di chiudermi la porta alle spalle.

“Non so se sono frocio, ma senz’altro sono libero!”

 

“All in all it's just another brick in the wall.
All in all you're just another brick in the wall.”

 

Me ne andai.

Riempii il mio bagaglio di poche cose e di tanti sogni, nonostante la mia situazione non fosse affatto felice.

Finalmente però lasciavo quella maledetta casa e quel maledetto quartiere.

In quel momento le sensazioni che mi accompagnavano erano unicamente libertà e desiderio, le sole a cui credevo veramente, le sole che mi avrebbero mandato avanti.

Il mio addio a White Chapel non fu colorato e glorioso come me lo ero immaginato poche ore prima, ma non fu senz’altro una fuga.

Soltanto quando iniziò a fare buio e quando sentii la pioggia che non smetteva di sbattere sul mio volto, iniziai a rendermi conto che ero solo.

Dove potevo andare? Quel bastardo di Harry mi aveva tradito, dunque… non avevo più un amico.

Pensai per un istante di andare da mia sorella, ma figuriamoci se lei, imborghesita com’era, avesse ospitato il fratello povero e in piena crisi d’identità sessuale.

Quella notte la trascorsi tra i barboni della stazione, non fui assalito, nessuno mi derubò, ma stranamente trovai una specie di calore umano, tipico della gente che non ha niente da perdere se offre metà del suo pane.

Mi addormentai su una panchina, con la polizia che pattugliava a soli dieci metri di distanza da noi, e prima di chiudere gli occhi, contemplai la grigia cupola che ricopriva i treni assonnati e pensai a lui.

Faceva freddo, le grida degli ubriachi a volte mi facevano sobbalzare, ma riuscii comunque ad addormentarmi con un sorriso.

 

“All in all it's just another brick in the wall…”

 

Riuscii a trovare un lavoro.

Pochi giorni dopo, come benzinaio in un autogrill appena fuori da Londra, all’incrocio con l’autostrada.

Il mio datore di lavoro mi aveva preso in simpatia, la prima volta che mi aveva visto si era bonariamente messo a ridere e mi aveva subito inquadrato come una ‘brava testa di cazzo’.

Non so se intendesse dire ‘bravo ragazzo’ o semplicemente ‘testa di cazzo’, ma detto da lui capii subito che si trattava di un complimento.

“Poche storie, qui si lavora sodo. La gente ti butta giù dal letto dalle cinque del mattino, quindi tu alle cinque dovrai essere sul posto di lavoro! Se hai qualche grillo per la testa sei fuori!”

Mi aveva squadrato un poco, poi aveva risolto che ero un tipo a posto.

Credo che a quei tempi la mia omosessualità ancora non si notava molto, oppure non si era dichiarata del tutto, comunque lui non notò affatto qualcosa di strano in me.

Il pregiudizio contro la diversità non era un concetto che gli apparteneva.

“Allora accetti?”

“Accetto!”
Fui assunto.

La paga non era male: quattrocento sterline al mese mi avrebbero consentito una vita più che dignitosa.

Lasciai finalmente la stazione, salutai i miei amici della strada, con la promessa che appena potevo sarei passato a trovarli, e magari ad aiutarli anche un po’e riuscii a prendermi una stanza in un vecchio palazzo a Soho.

Una volta pagato l’affitto e comprato qualcosa da mangiare non mi restava molto dei soldi, ma sapevo già che il mio scopo avrebbe significato sacrificio, e una parte della cifra sarebbe dovuta rimanere necessariamente… per lui.

Così dopo qualche tempo, in cui avevo per il momento accantonato i miei sogni, una sera, terminato il lavoro, mi diressi in silenzio verso casa, soppesando ogni mio passo, ogni piccolo frammento di strada.

Stavo di nuovo per vivere…

Era finalmente giunto il momento di togliere dal bagaglio l’oggetto che avevo riservato per la fine o forse sarebbe meglio dire, per l’inizio della mia vita, della mia vita libera… il desiderio.

Mentre mi vestivo, guardandomi sorridente allo specchio sentii quell’intenso calore che avevo lasciato da parte, conservato gelosamente durante quel periodo di sacrifici, ricominciare a crescere lentamente in me.

Vidi il mio volto tingersi a poco a poco di rosso, mentre una musica che non avevo mai dimenticato raggiunse le mie orecchie, ed un’immagine che mi aveva accompagnato negli istanti più bui e più freddi di quei giorni, ritornò come un sussurro a scaldarmi il cuore.

Mi guardai un’ultima volta, risi… non avevo nulla da invidiare a Iggy Pop!

“Harry… se mi vedessi ora! Sarei la dimostrazione vivente delle tue teorie…” strizzai l’occhio alla mia immagine riflessa sullo specchio “E’ il nuovo che avanza!”

                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 6: “because the night”

 

 

Si… perché la notte appartiene agli amanti?
Notte complice, notte madre, notte amica…

Correva via la notte, strappata ai vetri del taxi che si destreggiava veloce tra le altre macchine lungo il Tower Bridge, ed io la osservavo e me la facevo compagna… avevo bisogno di lei, mi era mancata tanto in quei giorni, o meglio, mi era mancata vestita del suo abito migliore.

Appoggiai la testa al finestrino, rilassandomi a guardare le luci che passavano… io già la sentivo… la musica, non era lontana, presto ci sarei stato dentro.

Avevo imparato ad amarla, la musica… anche se ancora un po’ mi spaventava, mi spaventavano le conseguenze, mi spaventava l’attimo dopo l’amore… l’amore…

Ancora non riuscivo a capacitarmi… stavo ritornando lì, nel luogo che mi aveva fatto cambiare, stavo per rivederlo di nuovo.

Non mi posi minimamente il problema che lui potesse essersene andato, io ero convinto, che in un modo o nell’altro mi stava aspettando.

Stavo tornando da lui, come uomo libero.

Avrei dovuto imparare ancora molte cose, e presto avrei capito che illusione fa rima con distruzione, e una passione che divampa in modo tanto rapido presto diviene cenere, ma allora non me ne importava, ero venuto al mondo per una seconda volta, e l’unica cosa che m’ interessava era lui, l’unica cosa che mi bruciava davvero fin nelle viscere…

Strinsi tra le dita il portafoglio e sorrisi… avrebbe ballato per me… con un solo cenno della mia mano e un’occhiata ai pezzi di carta che consentono il potere, sarebbe stato mio… mio, ma quanto?

Molte persone ritengono squallide questo genere di cose, etichettano perversione certi desideri… si… gente-soldato… uomini-generali… gente scura e grigia… spalancai il finestrino e gridai fuori… per me questa significava vita!
Il tassista si limitò ad alzare causticamente il sopracciglio, non si scompose… era sempre più diffuso vedere giovani come me, dotati di comportamenti illogici in questi nuovi tempi.

“Dove la devo lasciare?”

“Svolti laggiù, all’angolo di questa strada!”

Non rispose nulla, ma a me sembrò d’intravedere un sorriso sulle sue labbra.

“Buon divertimento, ragazzo…”

Lo pagai e finalmente scesi sulla terra promessa.

E come la volta precedente, non appena respirai l’aria di quella zona, tutto attorno a me scomparve.

Mi sentii mancare e per un istante vidi buio, non credevo che ritornare laggiù mi avrebbe fatto quell’effetto… il mio cuore iniziò a battere con forza, e compresi che io da quella notte ero rimasto in quel luogo, lungo quella strada, in attesa… non mi ero mosso di lì.

Finché non entrai nel locale, non mi capacitai di ciò che stavo realmente per fare… io piccolo ragazzo di quartiere che entrava da solo nel cuore pulsante della City… senza barriere… senza appoggi… senza… difese…

“Prego signore…”
Avanzai come allucinato verso l’ingresso, le grandi tende rosse si aprirono come una bocca vorace e oscura, simili alle parole che si possono leggere nella ‘Dante’s Commedia’: “Lasciate ogni speranza voi che entrate!”… sorrisi all’idea, mi elettrizzava, e come la musica, anche i profumi e le prime visioni di bellezza m’invasero i sensi, chiusi gli occhi e precipitai nel profondo del mio desiderio.

Mi ritrovai a poca distanza dal palco dove ero stato con Harry, una ballerina danzava e mi guardava, ma io non ricambiai il messaggio dei suoi occhi.

Per un istante ebbi come l’impressione che tutti mi stessero osservando, incuriositi, divertiti, attenti alla mia prossima mossa, come se io fossi stato atteso dall’ultima volta.

Finché, anche se a fatica, trovai il coraggio di voltarmi, e con il cuore in gola intravidi la piccola saletta e la minuscola porta di legno in fondo ad essa.

Deglutii. Era ancora chiusa.

C’era un formicolio di gente seduta ai tavoli, indifferenti a ciò che stava avvenendo, gente non degna di quello spettacolo, gente con cui Giglio non avrebbe neppure dovuto scambiarci uno sguardo.

Invece l’avrebbe fatto, eccome se l’avrebbe fatto. Fui assalito da un breve e violento moto di gelosia, quello stesso senso di protezione che mi aveva colto la volta precedente quando mani affamate stavano usurpando il suo corpo.

Un corpo in vendita… il migliore sul mercato, ma questo lo dimenticavo troppo spesso.

Mi avvicinai lentamente verso uno dei tavoli e mi sedetti con nonchalance accanto ad una ragazza con gli occhiali.

“E’… è qui che balla Giglio della Notte?” domandai un po’ imbarazzato alla tipa che mi scrutava con curiosità.

Cazzo… ma ci voleva tanto a capire che fossi gay? O forse… non avevo affatto la faccia da gay!

“Chi?” mi sentii gridare per tutta risposta.

“Giglio della Notte!” ripetei un po’ stizzito.

“Non so chi sia!”

Mi sentii gelare. E se non lavorava più li?

Harry mi aveva detto che lui era il più famoso, il più conosciuto nei locali notturni di Londra, come diavolo poteva allora quella cretina non saperne nulla?

La detestai con tutto me stesso, e prima di gustarmi l’amara sorpresa di scoprire della sua assenza, fui colto dall’impulso di alzarmi e andare via.

“Dieci sterline buttate nel cesso!” mugugnai stringendo i pugni sul tavolo “Cazzo…”

Tutta la magia sembrava essere di colpo scomparsa, feci per mandare tutto al diavolo, quando d’improvviso nel rumore generale, in quella piccola saletta piombò il silenzio, e la piccola porta si aprì.

Restai come paralizzato, inchiodato alla sedia, trattenei il respiro, sentii il battito del mio cuore rimbombare nella mia testa, un tamburo interno prese a pulsarmi nelle vene.

“Sta entrando, sta entrando!” saltò su la ragazza tutta elettrizzata.

Io non la sentii neppure, e non mi resi neanche conto che la sala era occupata unicamente da donne, ma anch’esse ormai non badavano più a me.

La nebbia bianca si levò lenta e sinuosa dinanzi all’uscio della porta, e i miei occhi trepidanti poterono intravedere una sagoma apparire dietro di essa.

La sagoma di un uomo.

 

“Take me now baby here as I am…”

 

Perché la notte appartiene agli amanti?” mi domandai, mentre la figura avanzava verso di noi, fendendo la nebbia attorno a sé.

Perché?

La musica sembrò levarsi più alta, più forte, più intensa e terribilmente dolce alle mie orecchie… la riconobbi… quella musica… la sua musica…

All’aria si sostituì la tensione dell’attesa… i respiri divennero desiderio e i profumi aspettativa… lui stava per arrivare…

La nebbia si diradò del tutto, la ragazza accanto a me lanciò un gemito strozzato, ed egli prese possesso del tavolo.

Era lui, Giglio della Notte.

I miei occhi lo percorsero incantati, dalla punta dei piedi all’ultimo frammento dei suoi capelli d’oro… li riconobbi… abbandonati e fragili, proprio come colui che li portava.

Rimase immobile per alcuni secondi, poi lentamente, ad occhi chiusi, iniziò a passarsi una mano sul petto, come per sentirsi, come per sentire il suo momento.

Ci appartiene questa notte, Giglio? Dimmi, ci appartiene?” gli chiesi con la mente, mentre seguivo i suoi movimenti.

 

“Pull me close, try and understand…”

 

Sembrò destarsi e finalmente mi guardò.

Impenetrabile, di ghiaccio, intoccabile.

 

“Desire is hunger is the fire I breathe
Love is a banquet on which we feed…”

 

Poi si rivolse alle donne e lentamente si chinò verso di loro, voltandomi le spalle.

Carezzò il loro volto ad uno ad uno, mentre loro, assetate della sua bellezza così rara e lontana gli porgevano il pegno di quel sacrificio.

E lui accettava, sfilando dalle loro dita la moneta del gioco.

Raggiunse anche me alla fine e il sorriso scomparve dal suo volto.

Tornò ad essere impenetrabile. Mi guardò con aria di sfida. Mi guardò con rimprovero.

Ci fissammo per un istante che a me parve lungo un’eternità, drogato del tutto dai suoi occhi senza veli.

Gli porsi i soldi.

“Balla per me!” sussurrai a poca distanza dalle sue labbra.

Indugiò ancora un momento. Li prese con disprezzo, senza regalarmi nulla della dolcezza del suo tocco.

 

Fu doloroso farlo. Fu doloroso comprarlo. E averlo solo per un breve spicchio di quella notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 7: “misirlou”

 

 

Credo che impazzii completamente durante quel periodo.

Lavoravo sodo ed avevo una frenesia addosso che non mi dava pace… ogni notte ritornavo lì, al Doll’s House e quando non avevo abbastanza soldi per entrare, restavo fuori, appoggiato contro uno dei muri rovinati di quella via con gli occhi fissi sul locale e la mente già dentro di esso.

I buttafuori mi scrutavano con sospetto, pronti a riempirmi di botte se avessi accennato la minima follia, temevano che attendessi qualche ragazza, ma non avevano capito che non erano le ragazze che mi interessavano… il mio sguardo si era spostato ben oltre.

Quando non potevo averlo, mi accontentavo di sognarlo, di immaginarlo e se devo dire la verità, questo mi riusciva piuttosto bene… chiudevo gli occhi e assumevo la tipica espressione da ebete allupato, me lo vedevo davanti, rallentavo con il pensiero i suoi movimenti fino a renderli esasperanti, lo vedevo chinarsi verso di me e sfiorarmi il mento con le dita, accennare un bacio per poi allontanarsi di nuovo.

Sentivo i pantaloni diventare stretti, giù nel basso ventre, sorridevo… compiaciuto, e se non fossi stato nel bel mezzo della strada, mi sarei fatto volentieri una sega!
Ma non potevo andare avanti così, non potevo!
All’idea di quell’assurdo delirio mi veniva da ridere, e non mi fermavo per molto tempo, sembravo pazzo o forse lo ero… quando raggiungevo quello stato, quando mi toccavo e scoppiavo gridando, spalancavo gli occhi e con il cuore in gola dedicavo tutto questo a mio padre.

“E’ per te, papà!” urlavo nel bel mezzo della notte come se la mia voce potesse raggiungere le anguste stradicciole di White Chapel.

Ma White Chapel era lontana, molto lontana… solo un ricordo.

L’avevo ormai lasciata alle spalle, così come avevo lasciato alle spalle l’immagine di quel bambino chiuso ed impaurito che si alienava nei silenzi stagnanti di quel quartiere.

“E’ passato, Pit, è tutto passato…” mi dicevo, appena dopo aver goduto del piacere “Papà, mamma, Harry… tutti gli stronzi sono andati!”
Testavo la differenza…

Poi scivolavo a terra stringendo tra le mani una foto del mio idolo, e quando non mi mettevo a piangere mi addormentavo di sasso, stremato, libero e felice.

Eppure, dopo un po’ di tempo, mi resi conto che ciò che stavo vivendo già non mi bastava più.

Una notte, terminato il solito appagamento dei sensi rimasi come stordito per qualche istante, respiravo affannosamente e sentivo che qualcosa dentro di me non si era liberato come di dovere.

Non capii subito cosa fosse, ma d’improvviso mi sentii invadere da un profondo senso di solitudine.

Il mio corpo non bastava più a se stesso, le mie immagini, le mie proiezioni, il mio voyeurismo unicamente mentale non erano più sufficienti… ciò che mi mancava era qualcosa di vero, qualcosa che non avevo mai avuto… il calore.

La mia mano scivolò inerme a terra, il mio ventre che stava tremando ancora, fu scosso da sussulti e quasi senza accorgermene iniziai a piangere, a singhiozzare, a guaire come un animale ferito.

La sua foto cadde al mio fianco e fu bagnata dalle mie lacrime.

No, quella foto ormai non mi bastava più.

Capii all’istante quello che desideravo e per un momento sperai che si trattasse solo di un desiderio passeggero, ma quando a quell’idea il mio cuore riprese a battere con più forza mi detti per vinto.

Nessuna foto, nessun ballo a distanza, nessuno sguardo, nessun movimento accennato avrebbero più saziato il mio spirito, voragine d’incessante malizia… mi alzai in piedi, con il braccio ripulii il mio volto dalle lacrime e mi diressi verso l’armadietto della mia stanza, l’aprii, tirai fuori una scatolina e presi in mano il tanto agognato stipendio di ben due mesi… ottocento sterline.

Strinsi i soldi tra le dita, ma neppure per un istante mi domandai ciò che stavo facendo, o meglio m’imposi di non domandarmelo.

“Tutto scompare così rapidamente…” mormorai carezzando le grandi banconote “Ma questo non ci impedisce di riprovare ancora…”

Guardai fuori dalla finestra, pioveva ed era già calata la sera.

Ormai avevo capito… c’era un solo ed unico desiderio in me… lui.

Lui, in carne ed ossa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 8: “roxanne”

 

 

Ore 22:30.

Silenzio.

Riesco soltanto a sentire il rumore della pioggia, il suo fruscio quando raggiunge il terreno che deve bagnare.

Le esili gocce picchettano sulla mia nuca e mi rigano stancamente il volto, forse anch’esse stanche di quella attesa, che a me sembra stia durando da ore.

Silenzio.

La mia mente non percepisce. Le mie orecchie non ascoltano se non la pioggia.

Tutto il resto, gli schiamazzi, le risate, i grassi uomini volgari che si gongolano impazienti per entrare nel locale, non mi tocca… è lontano da me, è impuro.

I miei occhi sono fissi sull’insegna luminosa, ormai mi è familiare e ogni volta è dolcissimo rivederla ancora.

Nel pugno stringo una bottiglia di vino, rimasta a metà… avevo bisogno di scaldarmi o forse… semplicemente di darmi forza.

Forza per questa mia ultima follia.

Infine l’ho fatto. Rido. Si si, l’ho fatto.

Solo un’ora prima ero nella mia stanza, inginocchiato nella mia stanza per la precisione, i pantaloni abbassati sulle cosce e la frenesia nella mano che si muoveva veloce, mentre i pensieri erano drogati da lui… dal suo corpo… dalle sue labbra… dalla sua danza…

Poi, come un pazzo nel pieno del suo delirio, mi sono alzato e ho preso tutti i miei risparmi, per poter essere nuovamente qui, come ogni notte, come un cane fedele che torna alla sua casa, ma questa volta con intenzioni assolutamente diverse.

Si, l’avevo fatto, ed ora non avevo più intenzione di tirarmi indietro.

“Signore?”
Non avrei mollato ora.

“Signore, mi scusi…”
Una voce non troppo gentile. Alzo lentamente lo sguardo e una volta incrociati gli occhi del buttafuori sorrido, senza sapere il perché, senza un motivo valido.

“Signore, non può entrare con quella!” dice senza troppe maniere.

“Quella?” rido “Quella cos…? Ah, questa…” sollevo la bottiglia, proprio all’altezza del naso di quel bestione.

“Non può entrare!”

Il suo tono di voce perentorio e l’improvvisa vista della cassa sembrano destarmi di colpo. Sono all’ingresso del locale, ora è il mio turno, l’attesa è finita e anche la fila, senza che io me ne accorgessi, si è dileguata prima del tempo.

“Oh, beh, certo… la butto subito!” dico, senza staccare gli occhi da lui, allungando un braccio verso un secchio della spazzatura.

Non provare a rovinarmi questo momento… stai calmo… stai calmo, faccio tutto quello che vuoi…
Non stacco ancora gli occhi da lui, come se bastasse un movimento improvviso ad incrinare quella complicità nervosa che si è creata tra di noi.

“Posso andare?”

“Vada!”

Il suo cenno con la testa, non attendevo altro… la signora bionda alla cassa mi sorride ammaliante, ma io non ho occhi per lei, non ho occhi per nessuno, e come un tossico, ossessionato, affannato, stremato dal suo desiderio e dal suo male, faccio ancora qualche passo in direzione dell’entrata e finalmente mi trovo nel cuore della mia alcova.

I miei occhi corrono immediatamente alla parte destra della sala… i tavoli sono praticamente tutti occupati, sento un moto di frustrazione salirmi al cuore, ma la notte è appena cominciata, il suo battito, seppur ancora lieve, ha iniziato ad aumentare d’intensità, così mi dico, per non terrorizzarmi al pensiero di non riuscire a vederlo, che devo attendere per il momento dell’esplosione… attendere ancora… soffrire…

La musica è particolarmente bella questa sera, i corpi delle ragazze si muovono dolcemente sul palco, nelle gabbie o contro i pali, libidinosi oggetti di proiezioni e di metafore oscene.

Ma stanotte io non voglio né proiezioni, né metafore oscene… stanotte io non sono venuto per assistere, ma per avere.

“Stanno arrivando!”

Mi volto di scatto. La voce stridula di una vecchia megera ha immediatamente attirato la mia attenzione, e infatti senza preavviso, senza aver avuto il tempo per prepararmi mentalmente, vedo tre uomini salire sui rispettivi tavoli e fermarsi in una posizione d’inizio… prima del delirio, prima che il sogno colga tutti, tutti noi.

Uno di questi ragazzi è lui… lo riconosco all’istante, e senza riuscire più a trattenermi mi avvicino di più, per guardare, per farmi male.

Mi appoggio stancamente ad una colonna, e con occhi imploranti e disperati scivolo sul suo corpo ancora interamente vestito, pregandolo in silenzio, come ogni sera, di non farlo, di non donarsi a chi uccide la sua anima.

Ma lui non mi ascolta ed inizia il lento e doloroso stillicidio che so, che anche questa volta, mi condurrà alla follia.

Sospiro. E sento la stoffa dei pantaloni soffocare i pulsanti battiti del mio sesso.

“Perché…” gemo “Perché è così…”

Si è accorto di me, prima di iniziare a spogliarsi mi ha guardato a lungo… non sono riuscito a rispondergli con un sorriso, non sono riuscito a donargli banalità e fargli capire che mi piace, che lo adoro… sono rimasto impassibile in un muto dialogo con i  suoi occhi, così anche lui ha abbassato i suoi ed ha iniziato il suo dovere… amaramente… ormai ho imparato a conoscerlo.

Mi detesti, non è così…?” sussurro nella mia mente “Mi detesti… io lo so…
Mi odia quando gli porgo i soldi, e stanotte mi odierà ancor di più perché la cifra sarà alta.

 

Credo che siano passate interminabili ore dall’inizio del suo spettacolo, la sala si è quasi svuotata, do un’occhiata al mio orologio… le cinque… soltanto un’ora, un’ora e poi il locale chiude i battenti e tutto questo sarà finito.

E la mia follia? Appoggio una mano alla tasca dei miei pantaloni e sento il rigonfio causato dai soldi che ho… potrei rimetterli nella cassettina nell’armadio e non finire per soffrire la fame per i prossimi giorni, ma… mi sta guardando… è tutta la notte che lo fa… abbiamo parlato per tutta la notte… ma non capisco… cosa mi vuoi dire? Cosa stai implorando con i tuoi occhi mare d’inverno, cosa? Mi guardi ancora? Non capisco, io non…

La musica continua a battere violentemente contro le mie tempie, e per un istante mi sembra quasi di sentire di nuovo il disprezzo e il fastidio che un tempo provavo nei confronti dei rumori… sono stanco, i miei occhi si stanno chiudendo, ho lavorato sodo tutto il giorno, potrei riportare a casa i miei risparmi, potrei…

Mi sta guardando…

Ormai sono rimasto soltanto io e un gruppo di ragazzine che ridacchiano timidamente e lanciano occhiate sfuggevoli al mio angelo… ho deciso, andrò con loro.

Giglio scende dal tavolo e ci fa cenno che possiamo sederci. Ora è il nostro turno, l’ultimo turno per quella notte.

Quindi scompare per qualche istante dietro ai tendaggi, per cambiarsi, vestirsi e ricominciare il rito di nuovo.

Per noi…

 

Sento i gridolini soffocati delle ragazze accanto a me, sembra che non si siano accorte della mia presenza… tutte proiettate ad afferrare quello spicchio di vita adulta che gli manca.

Ed io, che siedo accanto all’innocenza e attendo innocenza, sono ancor più trepidante di loro.

Non riesco a distrarmi, non riesco a concentrarmi sul rintocco dell’orologio che ruba sempre più tempo… ma attendo con il fiato sospeso…

“Ciao…”

La sua voce…

Non l’avevo mai sentita così vicina.

Il suo sorriso… rivolto a tutte… così falso… il suo sorriso… per tutte, tranne che per me…

Mi sento quasi orgoglioso di questo.

Inizia a spogliarsi… lentamente… sensualmente… le ragazzine gridano… lui s’inginocchia dinanzi a loro, e negli sguardi di tutte cerca la più audace, quella con cui far vedere qualcosa, per non sciupare quell’innocenza troppo presto.

E’ dolce il mio angelo, è delicato… ha paura di ferire la gente.

Finché non arriva il mio turno… gli porgo il pegno per quel gioco, e lui apre le braccia e m’invita ad alzarmi.

Lo guardo incantato… vorrei che non lo notasse… mi vergogno…

Afferra le mie mani e lentamente le appoggia al suo petto… quel calore mi frastorna… nota i miei respiri faticosi e un leggero sorriso pieno di malizia compare sulle sue labbra… non smette di fissarmi, mentre le mie dita scivolano sul suo torace scolpito, perfetto…

Si allontana da me, e nuovamente io provo il gelo tagliente e il dolore dell’assenza.

Ritorna a giocare con le ragazze, che sembrano ancora un po’ scioccate per ciò che lo hanno visto fare… un uomo carezzare un altro uomo… si, perché anche tra due persone con un corpo simile si può diventare amanti.

Ma loro non lo sanno…

D’un tratto avverto il rintocco dell’orologio, e un’ansia crescente mi avverte che il tempo sta per scadere… ho paura, no, non di vederlo andar via, ho paura della mia follia che si sta avvicinando sempre di più.

Cade a terra l’ultimo abito, un gemito corale esplode alle mie orecchie… lui in tutta la sua bellezza… le sue natiche dure e di marmo davanti ai miei occhi…

Lo spettacolo è finito…

Le ragazze si alzano barcollanti senza più riuscire a staccare gli occhi da lui, ed egli, senza fretta, raccoglie i suoi vestiti, dandomi sempre la schiena, avvicinando al mio volto il suo bacino, come se desiderasse che io sentissi il profumo di quella carne in vendita.

Ho il cuore a mille… vedo le ragazzine iniziare ad andarsene, una ad una… vedo il divanetto rimanere gradualmente vuoto… sono solo… il suo corpo dinanzi a me… la sala vuota… la musica più bassa… le luci soffuse… sono solo… la follia sta raggiungendo il suo culmine… lo so… lo so… di lì a poco non potrò far altro che esplodere… la sua schiena… le sue natiche… il suo profumo… sono solo… solo… solo…

Se ne sta andando.

Mi sento morire.

“Aspetta!”

E’ davvero mia quella voce?

Si volta lentamente, coprendosi la vita con un panno… i suoi occhi sono interrogativi… per un istante, non sa che fare…

“A..aspetta solo un secondo…”
Sì, sì è mia quella voce. La riconosco.

Sono riuscito a parlargli… sono riuscito…

“Cosa vuoi?”

“Puoi venire qui un attimo?”
Credo che il cuore mi stia per scoppiare nel petto.

“Il mio turno di lavoro è finito!”
E’ diffidente, mi guarda corrucciato, vuole andarsene. Ma io non posso mollare proprio adesso, non posso davvero.

“Vieni… vieni qui… solo un secondo…”

Mi trema la voce. Non voglio che se ne accorga.

Muove qualche passo nella mia direzione… ho la vista appannata… ho paura di non resistere a lungo… si china un poco… le sue labbra… Dio…

“Sei… sei bravissimo…”
Cazzo! Non è quello che sono venuto a dirgli!
Annuisce e sorride, forzatamente, come fa con tutti!
Oh no, a me un sorriso del genere non me lo regali! Non osare regalarmelo!

“Vengo ogni notte qui per vederti…”

“Lo so…” fa per alzarsi “Ora devo andare!”

“No aspetta!”

Non so come mi sia uscito quel grido, non so quale istinto mi abbia spinto ad afferrargli con forza un braccio.

Si volta di scatto, guardandomi con occhi fuoco!
Ho oltrepassato la linea di confine! Ho spezzato gli steccati!

Ora non posso far altro che continuare.

“Che cosa vuoi da me?”

Cerca di liberarsi, ma io al contrario lo attiro di più verso il mio volto.

“Che cazzo vuoi? Chiamo la sicurezza!”

“Sei stupendo…” gli sussurro sulle labbra.

Le vedo dischiudersi appena e sento un sospiro uscire da esse.

“Lasciami andare cazzo!” sibila di nuovo.

“No, non ti lascio!”

“Ma che…”

“Voglio te!”

Mi guarda per un istante, poi come si rendesse improvvisamente conto che il pericolo fosse di colpo scomparso, scoppia a ridere… getta all’indietro la testa bionda… e il mio cuore trema.

“Mi hai appena avuto, amico!” esclama, liberandosi della mia presa che si era fatta debole “Il mio lavoro è terminato! Me ne vado a dormire!”

“Io voglio…” vedo la sua schiena nuda allontanarsi “…venire a letto con te!”
Un sussurro. Soltanto un filo di voce… voce nella voce… fusa a quella dei Police nello stereo.

Un sussurro urlato, forse.

Perché lui si ferma, testa china, occhi bassi… le sue spalle si sollevano rapidamente… sta respirando a fatica…

“Come…?”

“Io… voglio… venire… a letto con te…” ripeto, scandendo una ad una le parole.

Si volta lentamente, e sul suo viso non vi è più né sarcasmo, né stanchezza. I suoi occhi sono fissi sui miei… il suo sguardo gelido… rabbioso… pronto alla lotta… alla sfida che gli ho appena lanciato.

“Hai… avuto… il tuo divertimento…” mormora, ma posso sentire la sua voce che trema “Il mio lavoro è finito!”

“No, non è finito… non ancora!” ribatto, alzandomi in piedi.

Lui è sopra ad un tavolo, ma in quel momento, la parità fra di noi è quasi assoluta.

“Che cosa vuoi fare?”
Abbasso per un istante gli occhi e mi lecco con avidità le labbra, passando la lingua sul mio sorriso.

Lo guardo ancora…

“Scoparti!”

 

Silenzio.

Assoluto silenzio che sembra gelare entrambi per qualche secondo.

Silenzio ancora.

 

“Scoparmi…?” sorride “Scoparmi!” ripete con voce più alta “Vuoi scoparmi…?” esplode in una risata. Si riavvicina a me con fare derisorio, mi carezza una guancia con due dita “Tutti vogliono scoparmi in questo locale!” ride ancora “Non lo sapevi…? Dalla tua faccia si direbbe di no!”

Scuote la testa e si volta per andarsene, ma io con uno scatto gli afferro un polso e lo strattono verso di me, strappandogli un gemito di dolore.

“Io voglio scoparti davvero!”

Ci fissiamo per alcuni istanti, poi improvvisamente il suo volto diviene terribilmente serio.

“Questo non può essere, amico!” mormora, scuotendo lievemente la testa.

Sento una morsa al cuore, ma continuo a sostenere il suo sguardo.

Siamo così vicini in quel momento, violentemente vicini… quasi da far male.

Con la forza che sento di avere in corpo, potrei sbatterlo su quello stesso tavolo e farmelo lì, ma mi limito a stringergli con più forza il polso.

Avvicino le mie labbra alle sue…

“Io non sono una ragazzina, Giglio, non sono una vecchia strega allupata… non sono un tuo semplice cliente… ogni notte vengo qui… e per fare che cosa? Credi che mi basti guardarti? Toccarti per qualche secondo e poi lasciarti andare…? Oh no, bello…” l’avvicino ancora di più a me, fin quasi a sfiorarlo con la mia bocca “Io ti pretendo!”

Mi guarda in silenzio senza batter ciglio, poi scuote ancora la testa…

“Non può… essere…”

Mi sento invadere da una nuova debolezza, tremenda, distruttiva… lascio un poco la presa e lui si libera all’istante, saltando in piedi per guardarmi dall’alto e dominarmi ancora…

“Buonanotte amico!”

“Ottocento sterline!” gli grido dietro “Ottocento sterline pulite!”

Si blocca nella sua posizione. Attende… ancora qualche parola da me…

“Ti bastano ottocento sterline per una scopata, Giglio?”

Quelle parole mi spezzano dentro, rimbombano come un ruggito nella mia mente… non avrei mai voluto dirgliele… mai…

Si volta nuovamente… lo sguardo fiero, come di chi ha appena udito parole familiari, come di chi sta per confrontarsi su di un terreno che lo renderà senza dubbio vincitore.

Ed io ho gli occhi perduti nei suoi… una sua sola parola… un suo solo cenno… un suo solo gesto… non voglio altro…

“Ce li hai con te quei soldi?”

“Si… eccoli qua!” gli rispondo, tirandone un po’ fuori dalla tasca all’istante.

Il mio pegno… ancora una volta… la mia fragilità… il suo dominio…

Mi fissa severo.  E si allontana verso i tendaggi.

“Andiamo, seguimi!”

 

 

 

 

 

 

Pause…

 

 

 

 

Play… “roxanne”

 

Entrammo in una piccola stanza nel retro del locale. Lui chiuse la porta alle sue spalle e con la mano mi fece segno di seguirlo.

Mi condusse in uno stretto corridoio, eravamo praticamente al buio… potevo soltanto intravedere le sue ampie spalle dinanzi a me e le ciocche dei suoi capelli d’oro scosse appena da piccoli movimenti.

Credo di aver trattenuto il fiato durante tutto il percorso… sì, lo seguivo, come il cane segue il suo padrone, privo di resistenze e di dubbi, incantato, ammaliato, forse incredulo per ciò che stava per accadere.

Ma ogni qualvolta sentivo il peso dei soldi in tasca, il mio sorriso diveniva amaro e l’eccitazione pareva raggelarsi per qualche istante… strani pensieri assalivano la mia mente, richieste silenziose, esigenze che facevano tremare il cuore, ma cercavo di non ascoltarle… dentro di me in fondo lo sapevo… non avrei potuto pretendere di più quella notte e forse mai…

Lo guardai ancora una volta… il suo fisico perfetto, l’eleganza di ogni suo gesto, la malinconia che trasudava ogni sua parola, e mi domandavo perché volesse essere comprato, perché non si aspettasse altro da chi posava gli occhi su di lui.

“Siamo arrivati…”
Alzai di scatto la testa e mi trovai dinanzi alla hall di un albergo.

“Allora vuoi entrare, o hai cambiato idea?”
Senza rispondere mi mossi in quella direzione, superandolo.

“Guidami tu, dove dobbiamo andare?” mormorai voltandomi verso di lui.

“Vieni…” rispose senza troppe cerimonie, dirigendosi verso una rampa di scale.

Salutò velocemente l’uomo che se ne stava sonnacchioso seduto dietro il bancone della reception, e scomparì dietro l’angolo.

Seguii la scia dei suoi capelli, chiusi per un istante gli occhi e respirai il profumo che ogni volta riusciva a lasciare dietro di sé.

Mi parve di affrontare una fatica enorme nel salire quelle scale, le gambe mi si erano fatte pesantissime, i passi rallentati, il respiro lento e affannoso.

D’improvviso, tutta la sicurezza che serbavo dentro sembrò scivolare via lungo il mio corpo, e per la prima volta la mia mente ragionò su ciò che stavo per fare.

Sentii la chiave girare nel buco della serratura, feci appena in tempo a lanciare un’occhiata al numero della porta… 18/A… finché non mi ritrovai dentro, come se le mie gambe si fossero mosse da sole.

Vidi il mio uomo dirigersi verso il comodino ed accendere una lampada… subito una luce rossastra mi avvolse completamente, le pareti, l’ampio piumone che ricopriva il letto, l’imbottitura delle sedie, e perfino le tendine erano di un rosso porpora, sfumato a seconda dell’intensità della luce.

Ma per il resto la stanza era praticamente vuota, scarna, asettica e soprattutto… appariva povera, senz’anima.

Ripensai per un istante alla mia vecchia stanza di White Chapel, alle mura rovinate, tappezzate dai numerosi poster, anch’essi in parte strappati ed alcuni molto vecchi, ripensai ai miei libri, a tutto il mondo segreto che mi ero costruito là dentro… la vita e i sogni di un ragazzo, lontano dalla realtà e dal suo potere.

“Cosa fai lì impalato?”
La sua voce mi destò dai miei ricordi, e i miei occhi si posarono su di lui.

Trattenei per un istante il respiro come se fosse stato mozzato da una lama tagliente…

Lui era appoggiato contro il muro rossastro, a torso nudo, i pantaloni semi-aperti sul ventre, i capelli dorati stancamente abbandonati lungo il petto… teneva una sigaretta in equilibrio tra le labbra, il suo fumo offuscava lievemente il suo volto, ma potei comunque intravedere i suoi occhi, invitanti, pronti per l’attacco.

“Allora? Non volevi fare qualcosa con me?” disse con nonchalance.

Senza pronunciare una parola, afferrai una sedia e mi sedetti lentamente a poca distanza da lui.

“Voglio che tu balli per me…” sospirai nervosamente “Spogliati!”

Un sorriso malizioso incurvò le sue labbra, non lasciò la sigaretta, e sempre fissandomi dritto negli occhi, lasciò scivolare con una lentezza quasi esasperante le mani lungo i fianchi fino a raggiungere il bordo dei pantaloni.

“Questi non erano i patti!” sussurrò, arrestando le dita proprio su quel punto.

“Lo voglio!” insistetti.

“Sono cento sterline… per questo…”

Deglutii, scacciando dalla mente una vocina insidiosa che mi ricordava la follia che stavo per compiere.

“Fallo! Poi sarai pagato con tutto quello che vuoi!”
Gettò lentamente indietro la testa, dischiuse un poco le labbra e la sigaretta cadde a terra, spargendo la cenere rossa ai suoi piedi.

“D’accordo…” mormorò, iniziando a slacciare il primo bottone.

Strinsi con forza i braccioli della sedia, quasi fino a graffiare l’imbottitura rossa… era così difficile resistere.

Slacciò il secondo bottone, poi il terzo, infine l’ultimo… intravidi qualcosa al di là della stoffa… il suo pube era appena accennato dalle sfumature della luce porporina, che lo rendeva ancor più invitante, tremendamente invitante…

“Ora… toccati…” sussurrai con la voce che si era fatta improvvisamente più bassa… tremante… roca…

Sorrise e si portò le dita all’altezza del ventre per poi scendere di nuovo con dolcezza… si accarezzò delicatamente, muovendo la mano con eleganza, sfiorandosi sopra la stoffa e cercando più a fondo…

“Dio…” gemetti, quando sentii quel calore crescere con rapidità dentro di me.

Non era più una semplice foto che tenevo tra le dita, l’uomo che avevo davanti era colui che avevo desiderato per notti intere, per il quale avevo lavorato duramente durante il giorno… e in quegli istanti tesi, tirati fino al limite del sopportabile da aspettative brucianti, era ancor più bello… tremendamente bello.

“A..abbassati i pantaloni…” proseguii.

Annuì e fece come desideravo, iniziando una danza sensuale contro il muro, come aveva fatto poco prima sul suo tavolo, sotto quegli sguardi voraci e privi di attenzioni.

Io invece lo guardavo, lo guardavo fin nel profondo. Non mi limitavo al suo corpo, cercavo disperatamente la sua anima…era questa che volevo possedere, amare, volevo perdermi in essa.

Vidi la stoffa scura carezzare dolcemente la sua pelle, mentre scivolava a terra, oltrepassare ogni ostacolo, fino a finire ai suoi piedi e lasciarlo completamente nudo sotto ai miei occhi.

Ora anch’egli respirava affannosamente, le sue palpebre parevano essere divenute improvvisamente pesanti, le sue labbra inumidite da piccoli morsi che di tanto in tanto si dava come per trattenere il calore che sembrava invaderlo.

Notai distintamente la sua eccitazione e sorrisi malizioso.

“Non sei poi così professionale…” sussurrai senza smettere di fissarlo. Mi alzai e mi diressi verso di lui “Dovresti essere tu a farmi impazzire, ma a quanto pare i miei occhi su di te stanno sortendo una strana reazione …” appoggiai le labbra al suo orecchio “Mi sto sbagliando, Giglio…?”

Sentii il suo sesso duro sfiorarmi il ventre, e il suo petto sollevarsi contro di me…

“Mi stai pagando per ottenere ciò che vuoi…” mormorò a fatica.

Dov’era finita tutta la sua arroganza? Dove, la sua forza e la sua indifferenza? Era forse invulnerabile unicamente sopra ad un tavolo, a distanza da tutto e da tutti?

Lasciai scivolare le mie mani lungo i suoi fianchi, scesi e risalii lentamente, ampliai il più possibile le mie carezze per creare un contatto profondo tra noi due.

Respirai il suo profumo tra i capelli d’oro, appoggiai il volto nell’incavo del suo collo ed iniziai a gustare il sapore della sua pelle con piccoli baci.

Stavo perdendo il controllo… ma non volevo, non volevo cedere così in fretta…

Raggiunsi la sua bocca, ma di colpo si scostò, voltandosi di scatto per evitare il mio bacio.

“No, non le labbra…” disse, chiudendo gli occhi.

“Perché…?”

“Non fa parte del nostro accordo!”

“Ma che cazzo…”

“Le puttane non si fanno mai baciare, concedono il loro corpo, ma il bacio non rientra nelle loro prestazioni!” disse freddamente, guardandomi negli occhi.

“Non sei la mia puttana, Giglio!” mormorai quasi con scoramento.

“Si che lo sono! Mi paghi no? Ed io mi concedo! Come lo chiami questo?”

“Io non voglio…”

Ma non mi dette il tempo di finire la frase che si lasciò cadere sul letto accanto, portandomi con sé.

“Avanti scopami! Per altre trecento sterline! Sei qui per questo!” mi disse quasi con rabbia.

Chiusi per un istante gli occhi… cosa stavo facendo?

Poi, mi tirai su a sedere, mettendomi a cavalcioni su di lui e mi tolsi la maglietta, gettandola per terra sul pavimento.

Mi stava guardando… seguiva le linee del mio corpo con attenzione, mentre la catenina d’oro che portavo al collo ondeggiava lentamente sul suo volto.

Mi slacciai i pantaloni e li abbassai fino alle caviglie…con forza gli aprii le gambe e mi appoggiai sopra di lui.

A quel contatto chiudemmo entrambi gli occhi, soffocando un primo debole lamento in un profondo respiro… il nostro calore si fuse in un breve istante… noi… pelle contro pelle… immersi nel nostro profumo… pronti… impazienti…

Sentii le sue mani sulle mie natiche e poi sulla schiena, lo guardai in silenzio e, se in quel momento non fossi stato completamente inebriato dal desiderio di prenderlo, avrei potuto ben distinguere l’espressione tesa sul suo volto.

“Non sono mai stato con un uomo…” mormorai, alzandogli una gamba.

“Neanch’io…” rispose, assecondando le mie richieste.

Mi persi nei suoi occhi, intravidi la sua innocenza e senza attendere ancora mi spinsi dentro di lui.

Gridò e s’inarcò con violenza.

Gli afferrai con forza la testa e la sollevai contro il mio petto, come per proteggerlo, poi, attendendo che la prima ondata di calore si fosse acquietata, iniziai a muovermi con delicatezza dentro di lui, catturando, per quanto possibile, ogni angolo del suo corpo che riuscivo a raggiungere.

Mi tratteneva dentro di sé… potevo sentirlo… l’abbandonavo per qualche istante per poi rientrare in lui… iniziai a spingermi con più intensità… il calore era troppo forte, i miei sensi completamente inebriati, la mia volontà crollata assieme alle mie difese…

Scorsi una lacrima scivolare sulla sua guancia, ma proseguii noncurante… pensai unicamente al mio piacere… mi mossi con sempre più velocità… i suoi gemiti divennero più acuti… non capivo se si trattasse di dolore o di puro piacere… in me queste due sensazioni si stavano confondendo facendomi uscire pazzo… pazzo dalla voglia e dal desiderio… dominante… crudele… intransigente…

“Stai godendo?” mormorai con voce roca.

Non rispose… era capace soltanto di gemere.

Mi sembrò d’impazzire… di spezzarmi dentro nel sentire la sua voce, mentre la mia voglia di lussuria giungeva quasi al limite… lasciai scivolare le mani sotto la sua schiena e lo sollevai contro di me… stringendolo… penetrandolo… fottendomelo con rabbia e disperazione, senza alcun rispetto.

Sentii il mio corpo scuotersi violentemente, la mia mente fu attraversata da un flash d’immagini vorticose… la mia stanza… le sue foto… il mio sperma… le mie lacrime… la mia distruzione… mentre in quegli istanti stavo graffiando via il mio sogno, deturpandolo senza alcun pudore.

Piangevo e gridavo dentro di me, ad ogni spinta, ogni frammento della sua innocenza crollava rovinosamente, ed io raccoglievo quei pezzi desideroso di portarmeli via una volta finito tutto ed aggiungerli alla mia collezione segreta.

Sentii le sue mani afferrarmi le spalle, ma lo respinsi bloccandogli i polsi contro il cuscino… incrociò le gambe attorno ai miei fianchi, spalancai gli occhi… non poteva essere vero… non poteva volermi realmente!
Il suo sguardo mi gelò e al tempo stesso mi fece bruciare dentro… la malizia e la lussuria si erano diabolicamente mescolate sul suo volto…

“Avanti, vieni!” ordinò, spingendosi contro di me.

Era nuovamente tornato ad essere lui il padrone… mi stava dominando ancora… tutto il suo dolore era stata solo una finta, una finta, una maledettissima finta!

Mi aveva illuso!

Bruciai di rabbia e di odio… lo penetrai un’ultima volta con pura violenza, squarciandomi dentro, gridò e pianse, stavolta davvero… le sue lacrime scivolarono sul cuscino, e rivoli della mia essenza gocciolarono tra le sue cosce.

Il resto… l’avevo donato a lui…
Rimasi a fissarlo, sorreggendomi sulle braccia… tratteneva i singhiozzi, ma d’improvviso, l’espressione sul suo volto mutò, riaprì gli occhi, fino a pochi istanti prima serrati e mi guardò quasi con disprezzo.

“Allora, non sono forse la tua puttana?”

Uscii da lui di colpo, strappandogli un gemito di dolore, balzai in piedi raccogliendo i miei vestiti ed iniziai ad indossarli furiosamente.

Come ero stato idiota!
Mi ero dato a lui completamente! Mi aveva scoperto! Mi aveva scoperto del tutto, ogni desiderio, fragilità, debolezza… gli avevo concesso ogni parte di me, ed ora… egli, uno sconosciuto, sapeva tutto di me, tutto!
Mi ero perso per qualcuno senza nome e senza identità.

La rabbia e la frustrazione iniziarono a scorrere nelle mie vene, un flusso inarrestabile di emozioni… volevo scappare, uscire di lì, fuggire da quel vortice di pura follia, nascondermi.

Indossai il giubbotto e gli lanciai le restanti sterline sul letto.

Le osservò con un sorriso sulle labbra… mi osservò con un sorriso sulle labbra… devastante, bello, maledetto.

Feci per andarmene, ma lui prese i soldi e li gettò ai miei piedi.

“Non li voglio!” disse fissandomi.

Mi chinai per raccoglierli, ed uno ad uno, lasciai cadere quei bigliettoni sul suo petto nudo.

Mi guardò stupito.

“Prendili!” ritornai alla porta, lo guardai per un’ultima volta “Sei la mia puttana!”

Ed uscii sbattendo l’uscio alle mie spalle.

 

 

 

TRACK 9: “the crying game”

 

I giorni a seguire, le settimane che trascorsero rapide come le ultime mode del momento, gli ultimi glamour, accompagnati da brillantini e luci fiammeggianti, furono strani, indefinibili… indimenticabili.

Io continuavo la mia doppia vita… di giorno un normale ragazzo che sbarcava il lunario lavorando da un benzinaio. Ogni mattina incontravo una miriade di persone, e mi piaceva giocare con le facce dei miei clienti, sostituendo ogni volto sconosciuto con quello del mio uomo… ormai lo chiamavo così.

Di notte invece, mi trasformavo… una specie di Dr. Jeckill e Mr. Hide che passava vorticosamente dalla rispettabilità alla lussuria, che parlava allo stesso tempo con giovani madri di tranquille famigliole dei quartieri bene di Londra, e con le ragazzacce seminude che popolavano i locali notturni di cui ero diventato ormai un assiduo frequentatore… ormai erano loro le mie amiche… loro la mia famiglia.

Mentre nel cuore c’era sempre lui.

Erano trascorsi un paio di mesi da quando ero stato a letto con Giglio, da quella notte di pura follia in cui avevo speso praticamente buona parte dei miei risparmi, da quella notte di rabbia, di pianto e di passione… all’inizio avevo detto basta, il suo sorriso era deleterio per me, per i miei sensi, per la mia dignità, poi però il suo fascino diabolico e al contempo, la sua dolcezza disarmante, mi avevano ancora attirato a lui come una delle droghe più rare e deliziose. Così ero tornato a trovarlo, ad ammirarlo da lontano, a piangere e a venire sulle sue foto quando mi trovavo, in seguito, chiuso nella mia stanza, come un tempo, come se tra noi due non fosse mai accaduto niente.

Infine un giorno avvenne qualcosa… come sempre era una cupa serata di pioggia, una di quelle che immortala la mia Londra nelle storie dell’orrore, una di quelle che ha reso famoso il mio depresso quartiere con le avventure di Jack lo Squartatore.

Arrivai al Doll’s House verso mezzanotte, ma stranamente l’atmosfera di quella sera era diversa dal solito, il silenzio era pregnante, il rumore della pioggia fastidioso come mai l’avevo udito prima.

Raggiunsi il locale e lo trovai chiuso.

Luci spente.

Un cancellaccio rovinato ne sbarrava l’entrata.

I volti luminosi ed intermittenti delle donne nude sulle insegne apparivano alquanto grotteschi.

La magia era forse finita?
Mi sentii assalire da puro terrore, un terrore che non mi spingeva a correre via, bensì a rimanere immobilizzato come un ebete dinanzi alla porta d’ingresso del mio paradiso, chiusa, come se un dio senza pietà avesse voluto tirarmi un brutto scherzo.

Mi appoggiai al muro, scivolai lentamente a terra, svuotato, con la morte dentro.

Sì, ero un caso disperato, l’ammetto.

Ma come per ogni tossico che si rispetti, la rinuncia alla droga è la fine di tutto… sogni spezzati, il crollo delle illusioni, il ritorno della tanta odiata realtà.

Chi cazzo ero io, in fondo?
Uno stronzo che lavorava da un benzinaio per potersi a malapena permettere l’affitto di una lurida stanza in un quartiere malfamato come Soho.

Ma finché c’era lui tutto questo non lo vedevo, finché i miei occhi erano ottenebrati dalla sua bellezza, il mio povero mondo appariva sfavillante e ricco di ogni cosa, la mia camera da letto una suite con ogni lusso, contornata dalla delizia delle attese, e dallo splendore sfumato del sogno.

Ed ora invece, cosa sarei divenuto di lì a poco?
Avevo dimenticato la mia storia passata, avevo dimenticato mio padre e le sue ingiurie, avevo rimosso dalla mia mente il volto triste di mia madre, i tradimenti di Harry, l’arroganza vuota di mia sorella. In quel luogo considerato da molti di perdizione, avevo invece trovato la libertà di essere, la gioia e l’emozione, il brivido del sesso, l’anarchia degli istinti, il delirio delle nuove tendenze… era un luogo in cui anche un povero stronzo poteva avere la sua fetta d’illusione per poter campare meglio.

Il locale era chiuso. Adesso. La fine di tutto.

 

“Mi aspettavo di trovarti qui…”

Alzai lo sguardo come mosso da una forza superiore.

La vita che pochi istanti prima sembrava avermi abbandonato, ritornò a scorrermi nelle vene, come un fiume che rompe la sua diga, accompagnandosi al rapido battito del mio cuore.

“Non te ne perdi una, eh?”

“Giglio…” mormorai, come se avessi appena visto qualche creatura soprannaturale.

“In persona…”

Era avvolto in un lungo cappotto nero di pelle, quasi si confondeva con la notte stessa, scuro e profondo come essa, soltanto i suoi capelli biondi, inzuppati dalla pioggia, potevano far distinguere la sua figura.

Assomigliava a qualche eroe dei fumetti per ragazzi, non so, un giustiziere della notte, un angelo che si era perduto in un mondo troppo distante dal suo e che doveva scontare la sua pena.

“Cosa ci fai qui?” mi domandò avvicinandosi.

“Perché… perché il locale è chiuso stasera…?” risposi, seguendo un discorso unicamente mio.

“Il padrone ha deciso di prendersi un po’ di ferie… ha venduto!”

A quelle parole mi sentii gelare.

“Come… com’è possibile? Non può… da un giorno all’altro… il tuo lavoro…”

Riuscivo a dire soltanto cose sconnesse. In realtà la cosa che più mi angustiava è che non avrei potuto più vederlo ballare dinanzi ai miei occhi.

“Si che è possibile! Qui siamo a Londra e le cose cambiano a vista d’occhio… tre anni fa la gente se ne andava in giro-capelli lunghi-e mezzi nudi, predicando teorie d’amore, oggi si preferisce il raso a spazzola, brillantini e mostrine e nessuno parla più di pace, ma di liberazione… quella vera… come pare a te… anarchica, amico mio!” si voltò e si accese una sigaretta per pararsi dal vento “Così i locali chiudono e gli ingenui come te appartengono già a ieri!”

Non aveva perso la sua sagacia. Riusciva sottilmente a colpirmi anche ora, anche se in quel momento sembravamo essere su uno stesso piano… ma non si stancava mai di ricordarmi la mia provenienza da un piccolo quartiere di borgata e il mio essere inopportuno dinanzi a certe situazioni.

“E tu? Cosa farai adesso?” gli domandai, avvicinandomi a lui.

“Quello che ho sempre fatto!” si strinse tra le spalle “Cambierò abito e mi adatterò ai gusti nuovi della gente…”

Un breve istante di silenzio ci separò per un poco, e quando egli non ottenne nessuna risposta o battuta da parte mia si voltò a guardarmi.

Tenevo gli occhi bassi, i miei pensieri si erano cristallizzati nella mia mente… lui sapeva essere camaleontico, freddo ed indifferente ad ogni cambiamento, ma io ci stavo male, soffrivo davvero.

“Si può sapere perché tenevi tanto a questo cazzo di locale…?”

“Era la mia vera casa…” sussurrai, senza star a pensare a ciò che dicevo “…è stata la mia prima vera casa e voi… la mia famiglia…” mi voltai e feci qualche passo in direzione del vicolo dinanzi a me “Ora non ho più niente… niente…”

Non rispose, ma potevo sentire i suoi occhi su di me. Mi voltai nuovamente verso di lui… volevo guardarlo, almeno per un’ultima volta… il mio viso era bagnato, così non avrebbe mai potuto distinguere se si fosse trattato di pioggia o di lacrime “Non sono come te, non sono capace di cambiare, di adattarmi a tutto… io, non sono nessuno…”

Feci per andarmene…

“Aspetta!”

Chiusi gli occhi e proseguii, avevo deciso di salutarlo definitivamente… avrei accettato la mia nullità…

“Aspetta!” gridò ancora.

Sentii i suoi passi raggiungermi e la sua mano afferrami un braccio.

Mi voltò verso di sé e per la prima volta, sotto quella pioggia scrosciante, ci guardammo negli occhi e ci scoprimmo simili.

“Ho ancora la mia stanza in quell’albergo, non è lontano da qui… perché non sali un attimo?”

L’osservai in silenzio, indugiai sul da fare, ma il mio cuore aveva già deciso.

“Ho freddo e non mi va di restare qui…”

Il tono della sua voce si era fatto improvvisamente dolce, quasi protettivo, come se, in un modo o nell’altro, egli avesse una specie di debito nei miei confronti.

Annuii e c’incamminammo verso il suo albergo.

Non ci parlammo durante il tragitto, non mi voltai neppure una volta verso le insegne spente del Doll’s House… non ne avevo bisogno… il locale era chiuso, ma il calore che avevo scoperto là dentro non faceva più parte di esso… lo stavo portando con me.

Ritornammo così, assieme per la seconda volta, nella sua stanza… la 18/A, e per la seconda volta scopammo senza sentimento e senza pretese… o meglio… fui io a farlo ancora, lui si concesse passivamente, reagendo ad ogni mia spinta, ma rifiutandosi di regalarmi un bacio e di soddisfare le sue voglie.

Voleva mantenere ancora le distanze…

Aveva bisogno della certezza del suo potere…

Lo capii soltanto allora, mentre lo prendevo e lo possedevo secondo ogni mia fantasia… si sentiva un corpo vuoto, non si considerava un essere umano, ma soltanto un oggetto in vendita, sorrideva unicamente quando riuscivo a comprarlo, e questo avveniva senza troppa difficoltà, ma non appena sentiva il mio desiderio e la voglia profonda che avevo di dedicarmi a lui, si ritirava, divenendo arrogante e crudele… indifferente, perché sapeva che in quel modo riusciva a gelarmi il cuore.

“Non voglio i tuoi soldi!” mi disse, non appena terminato l’amplesso.

“Non te li avrei dati…” gli sussurrai sensualmente, appoggiando le mie labbra al suo collo.

Avevo bisogno di stringerlo, di non perdere quel calore che sapeva trasmettermi, di legarlo a me in qualche modo.

Restammo in silenzio per un lungo momento, finché lui non si scostò bruscamente, spingendomi verso la mia parte, e si voltò di lato dandomi la schiena.

Non voleva essere disturbato.

Avevo iniziato a capire i suoi segnali..

“Non ci conosciamo neanche, ci hai mai pensato…?” dissi d’un tratto, cercando di attirare la sua attenzione.

“E’ importante?” rispose con noncuranza.

“E’ la seconda volta che finiamo a letto insieme e non conosco neppure il tuo nome!”

“Sai qual è il mio nome!”

Scossi la testa e mi avvicinai a lui.

“Non quello che ti hanno dato loro, ma il tuo…”

“Non ha importanza…”

“Si… per me…”

“Senti, vaffanculo, okay?” gridò, voltandosi di scatto verso di me “Io non sono tenuto a dirti niente di me!”

Lo fissai, reggendo per la prima volta il suo sguardo rabbioso.

“Ti ho soltanto chiesto come ti chiamavi…” risposi, cercando di mantenermi calmo.

Sbuffò, tirò un pugno al cuscino, mi minacciò ancora con gli occhi.

“Per favore…” dissi ancora.

“Gabriel! Mi chiamo Gabriel! Sei contento adesso?”

Sorrisi. Mi stesi nuovamente sul letto, con calma.

“Grazie…” mormorai, iniziando a fissare il soffitto. Sorrisi ancora. “Gabriel… come l’arcangelo Gabriele… egli era venuto a portare un annuncio molto importante… e tu? Tu cosa sei venuto a portare…?” mormorai dolcemente.

Mi guardò perplesso. Non rispose, come se non comprendesse di cosa stessi parlando. Doveva essere rimasto stupito della mia espressione serena.

Ma non stavo fingendo, non stavo fingendo nulla… mi sentivo bene in quel momento, ero felice lì con lui, e per un istante sentii che non avevo paura di niente, come se fosse mio, come se ci conoscessimo da sempre.

“Mi chiamo Peter… Pit…” mi corressi “Vengo da White Chapel… sono un provinciale, come dici tu… sono scappato da quel quartiere, sono fuggito dalla mia famiglia, da mio padre, dalla peggiore follia che possa esistere…” ripresi a dire, senza che lui mi avesse chiesto nulla.

Aggrottò la fronte, facendosi improvvisamente serio.

“Quale follia…?”

“L’assenza di sogni!”

Non rispose, continuò a guardarmi…

“Lui me ne privava giorno dopo giorno, come ha fatto con mia madre…” proseguii “…ho visto la morte scendere nei suoi occhi, lui parlava di regole… lo chiamavo Generale… dovevo essere un figlio perfetto… mi ha cacciato di casa…” risi “Ho fatto crollare i suoi piani!”

“E dove sei andato a cercarli i tuoi sogni, eh Pit…?” mormorò d’improvviso “Nel nostro locale…? Anche là dentro i sogni, tutti, sono morti!”

Abbassò gli occhi e notai con chiarezza che stava trattenendo una forte emozione.

“Quasi tutti…” sussurrai, posando una mano sulla sua.

L’allontanò reticente. Lo lasciai fare.

“Si, è vero… là dentro c’è tanta morte… eppure credo di aver avuto fortuna… perché tra quei cadaveri sono riuscito a scorgere, in una sera di pioggia, un barlume di vita… quel barlume di vita che cercavo…”
Appoggiai nuovamente la mia mano sulla sua. Questa volta non la ritirò, ma vidi che stava respirando a fatica.

“E tu, mio caro Giglio della Notte… dove li hai lasciati i tuoi sogni…?”

“Pe..perché te ne sei andato da casa…? Dove hai trovato la forza per farlo?” disse, stringendo improvvisamente le sue dita tra le mie.

“Me l’hai data tu quella forza… la prima notte che ti vidi al Doll’s House ero assieme ad un amico…” risi amaramente “…sempre che possa considerarsi tale… tornammo all’alba e la mattina stessa mio padre l’incontrò… seppe tutto… seppe che ti avevo guardato, che ero stato tutta la sera dinanzi a te, anziché ad inneggiare alle danze delle tue colleghe… così mi ha sbattuto contro il muro, e là è finito il suo potere!”

“Cosa ti ha detto?”

Risi.

“Cosa mi ha detto? Frocio! Ecco cosa mi ha detto! La peggior sconfitta per un padre…” presi un sorso della birra che tenevo accanto al letto “Ma io sono orgoglioso di esserlo!”

Vidi Giglio continuare a guardarmi a lungo, poi allontanò la mano dalla mia e si voltò nuovamente dalla sua parte.

“E la tua storia, Gabriel? Perché sei finito in quei locali? Tu… meriteresti molto di più, sai?”

“Si è fatto tardi, Pit, è quasi l’alba e ha smesso di piovere… prendi i tuoi vestiti e vai ora…”

Rimasi un po’ male per le sue parole, quella notte tra di noi si era creata un’atmosfera particolare, così intensa e bellissima che era difficile staccarsene.

Tuttavia mi alzai comunque dal letto ed iniziai a vestirmi.

Era stato già molto che Gabriel avesse ascoltato il mio racconto.

Egli invece non voleva mai parlare della sua vita. Che cosa nascondeva? Forse troppo dolore? Oppure temeva che la maschera che gli avevano dato crollasse a terra in frantumi ed io potessi scoprire un volto che egli stesso non conosceva?

“Io vado allora…” mormorai avvicinandomi alla porta “Dove… dove posso cercarti adesso…?”

Si tirò su il lenzuolo e affondò la testa nel cuscino.

“Non fare domande inutili!”

Così mi congedò anche quella notte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRACK 10: “innuendo”

 

 

Cos’è che nascondi?Qual è il tuo vero mondo? Quello una volta spente le luci, quello dietro le quinte, quello lontano dalla gente… Troppe volte me lo sono chiesto… ora voglio una risposta e la voglio da te!”

Non riuscivo a darmi pace. Era stato il primo pensiero fin dalla prima volta che lo avevo visto. Mi si era stretto il cuore, lo ricordo bene… sì, ci avevo pensato mentre lo vedevo ballare, mentre, sopra quel tavolo, gestiva il suo ruolo da protagonista… già da protagonista…
Perché quando lo show sarebbe giunto al suo termine, che cosa sarebbe stato?

Un niente!
No, oh no… io non davo ascolto a quella vocina insidiosa, la parola ‘niente’ non potevo accostarla al mio dio, al mio adorato Giglio… forse un ‘niente’ era per i suoi clienti, che dopo qualche giorno si dimenticavano di lui, forse lo era per i suoi datori di lavoro, manager senza scrupoli e pronti a tutto… non ci avrebbero messo molto a gettarlo sulla strada se non fosse rimasto sulla cresta del successo come splendido animale da circo qual’era.

Ma per me, Gabriel era tanto… era tutto… era la mia famiglia… la mia rivolta… i miei affetti… i miei sogni… la mia vita.

Io ero l’unico ad aver visto un po’ più a fondo e non potevo certo tirarmi indietro proprio ora, non potevo bendarmi gli occhi e smettere di guardare… non potevo… la sua anima, che era riaffiorata timidamente, non avrebbe retto un nuovo abbandono.

Ed io dentro di me, non so perché, lo sapevo bene.

Detti un calcio a dei sassolini lungo la strada perennemente bagnata, e proseguii verso la mia direzione.

Erano trascorse solo quarantotto ore dall’ultima volta che lo avevo visto, ma fin da subito mi era mancato… le sue immagini, il mio amore personale e solitario non erano bastati a colmare quel vuoto… sospirai… avevo bisogno di lui come dell’aria… del suo corpo e della sua essenza come del sole che scalda la terra infreddolita dalla rugiada del mattino e della pioggia, che a sua volta disseta quella stessa terra riarsa… lui, come il mare e la tempesta che uccide e ridona la vita…

Avrei vissuto unicamente di lui, ma non potevo… non potevo perdere la ragione proprio ora, avevo un lavoro, e avevo bisogno di esso più che mai, avevo un affitto da mantenere e un corpo da affittare… quanto sarebbe durato tutto questo?
Cercai di non pensarci, non potevo immaginarmi di smettere ciò che stavo facendo, una separazione tra me e lui sarebbe equivalsa alla morte.

Eppure… cosa avrei potuto fare? I soldi e lo stipendio li bruciavo nel giro di una notte e con i pochi risparmi che ero riuscito a metter da parte ci tiravo avanti appena.

Ma il mio problema non era quello di sbarcare il lunario, potevo stare qualche sera anche senza mangiare o con un semplice bicchiere di latte, tanto ci ero abituato, mia madre non era solita preparare grandi pranzi, era la depressione che si divertiva a divorare lei… l’unica mia angoscia era quella di dover rinunciare a Gabriel… allora sì che sarei rimasto senza cibo.

Mi rendevo conto che ormai ero malato cronico, che lui era diventata la mia ossessione, violenta e dolcissima, ma ormai c’ero troppo dentro, non potevo più farci niente, e tutto, tutto il mio mondo… il lavoro, il mio datore, i miei vecchi amici barboni, la mia famiglia e la stessa Londra non erano altro che le comparse che giravano attorno alla sua persona, e si dileguavano come ombre nella notte, al ritmo del suo battito.

Dovevo inventarmi qualcosa, ecco cosa dovevo fare. Trovare un modo per stargli accanto senza morire di fame.

“Se vuoi avermi devi pagarmi!”

Ecco cosa mi ripeteva ogni volta, con il suo sorriso tagliente e diabolico.

Sapeva che mi spezzava il cuore. Sapeva che gli avrei detto di sì. Sempre.

Del resto anche lui doveva campare in qualche modo, aveva perso il lavoro… forse viveva dei miei soldi, ed io… del suo respiro.

Mi accorsi dei miei passi che rimbombavano lungo la via… ero solo… già solo… esattamente come lui.

“Siamo due solitudini che s’incontrano, Pit…” mi aveva detto una sera.

Ed io l’avevo guardato a lungo, inebriato dall’alcool e dal suo corpo statuario, stentavo a capire le sue parole.

I suoi occhi si erano fatti tristi, ma soltanto ora riesco a ricordarlo… quella volta non ci avevo fatto caso.

“Sei triste perché nessuno ti ha mai guardato veramente…” mormorai, continuando a camminare “Triste perché il buio non ti appartiene, o forse perché non lo conosci… tu eri qualcuno solo sotto i riflettori, sopra quel tavolo, tra le grida della gente, ed ora… che cosa sei Gabriel? Un uomo senza scopi, né futuro… mi dispiace essere così duro con te, ma è la verità…” proseguii nel mio dialogo immaginario.

Era chiaro che non gli avrei mai detto nulla di simile, anche se avrei voluto, anche se avrei voluto vederlo piangere e lasciare che mi concedesse di guardarlo, amarlo, prendermi cura di lui.

Avrei solo voluto che gettasse la maschera o che la regalasse a me se preferiva, perché troppe volte ormai, mi ero chiesto se vi fosse l’ombra di un sentimento nel suo cuore, oppure se anch’esso risplendesse di ghiaccio come i suoi occhi… a me non interessava più vederlo danzare sotto le luci e la gloria, bensì m’interessava il suo buio, la sua parte segreta, quella più vera.

Ero soltanto un suo cliente, non eravamo amici, non eravamo amanti, ma quella notte, mentre mi avviavo trepidante verso il suo hotel glielo avrei chiesto: “Gabriel… chi sei tu veramente?”

 

“Gabriel…?” sussurrai entrando nella stanza.

Non ottenni risposta. La camera da letto era immersa in una luce soffusa, la lampada sul comodino era stata coperta da un panno dorato che rendeva ancora più magica quell’atmosfera.

Sentii il mio sesso iniziare a rispondere al fascino di quegli stimoli… sarebbe stata la location ideale per un film a luci rosse.

D’un tratto la mia attenzione fu attratta dallo scrosciare dell’acqua che proveniva dal bagno, chiusi gli occhi e sorrisi nervosamente… Gabriel doveva essere là dentro a farsi una doccia.

Iniziai a camminare su e giù per la stanza, senza riuscire a trovare un posto in cui fermarmi, o un atteggiamento da assumere quando lui sarebbe uscito, ero come sempre in imbarazzo, intrappolato tra una calma apparente e il mio istinto impaziente che, non appena sentiva il profumo di quel corpo nelle vicinanze, iniziava a fremere senza alcun ritegno.

Il rumore dell’acqua s’interruppe di colpo, udii il cigolio del rubinetto che veniva chiuso.

Improvvisamente mi accorsi degli abiti che Gabriel aveva lasciato sparsi sul letto e fra essi c’era anche l’accappatoio nero…

“Peter…”

Non avevo fatto in tempo a formulare un pensiero che lui era già fuori dal bagno. Deglutii… era completamente nudo.

Abbassai istintivamente gli occhi e mi volsi verso la finestra, tormentandomi le mani nervosamente.

Sentii i suoi passi dirigersi verso di me… potevo vederlo sfumato, riflesso nei vetri… si muoveva con naturalezza per tutta la stanza senza un abito addosso.

Raggiunse il letto e raggruppò tutti i vestiti in un angolo.

Intravidi un sorriso malizioso sulle sue labbra, prima di chinarsi a raccogliere l’accappatoio nero.

“Sei in anticipo…” proseguì, infilandoselo lentamente.

Si portò le mani alla cinta e nel momento in cui io mi voltai verso di lui se la strinse forte attorno alla vita.

Sussultai e sentii il mio sesso premere sempre più disperatamente contro la stoffa dei pantaloni.

Scossi la testa, come per cacciare le immagini voluttuose che mi stavano lentamente drogando.

Ricordai la domanda che mi ero imposto di fargli… quella notte ero venuto lì per sapere… per parlare con lui con l’illusione di avere un minimo di confidenza… per proporgli una cosa…

“Quanti ne hai oggi?” disse d’un tratto Gabriel, distogliendomi dai miei pensieri.

“Du.. duecento sterline…” risposi.

Inclinò la testa per guardarmi meglio, senza lasciare che il sorrisetto diabolico abbandonasse le sue labbra.

“Mmm… possiamo divertirci poco allora… Ti sei limitato questa volta! Oppure non hai trovato una scusa adatta per farti dare l’aumento dal tuo capo?”

“Infatti io…”

“Sa, scusi… ho bisogno di più soldi, Mr X…” prese a dire imitando il tono della mia voce “Io… i suoi soldi… li butto nel cesso…” rise sguaiatamente “ci devo pagare la mia puttana!”

“Smettila!” gridai, dirigendomi con rabbia verso di lui.

“Cosa, Pit?” mi fermò, gelandomi con i suoi occhi crudeli “Dico forse qualcosa di sbagliato…? Non sto dicendo la verità?”

“Basta, Gabriel… ti prego…”

“Tu… tu… mi preghi…?” disse ridendo di gusto.

“Mi stai ferendo…” mormorai.

Sentii i miei occhi farsi lucidi. Perché stavo reagendo in quel modo? Cos’altro potevo aspettarmi da lui? Era un bastardo! Un crudele bastardo misantropo che se ne fregava degli altri! Io ero solo un suo cliente! Cosa pretendevo? Lo pagavo per fare sesso! Mi ammazzavo di lavoro per gettare quei soldi duramente sofferti sul suo corpo sudato… giorni di lavoro per due ore di scopata!
No, Gabriel non si stava sbagliando. E forse aveva ragione…

Ma per me, ancora idealista e sognatore, le sue parole non erano verità… le dimenticavo in fretta, tanto più ora che desideravo sentirlo vicino, conoscere la sua storia e i suoi segreti.

“Allora? E’ così che gli hai detto, eh?” proseguì senza ritegno “E lui? Lui cosa ti ha risposto? Sì, Peter… ti do l’aumento… così diventi ancor più frocio di quel che sei!”
Lo fissai per un istante dritto negli occhi… come poteva essere così cattivo alle volte? Mi girai sui tacchi e mi avviai verso la porta…

“Io me ne vado!”

“No, aspetta!”

Mi voltai di nuovo verso di lui, e vidi che il suo viso aveva mutato espressione. Ma non appena si accorse dei miei occhi che lo stavano scrutando, riprese a sorridere beffardo.

“Tutta questa strada per niente? Tutte quelle ore di lavoro per… niente?” riprese avvicinandosi a me… potevo sentire distintamente il suo profumo… profumo d’autunno, di pioggia e di legna bagnata…

“Posso spenderli con qualcun altro questi soldi!” risposi, negandomi alle sue attenzioni.

“Ah davvero…?” sussurrò sensualmente, arrestandosi proprio dinanzi a me.

Quel calore si faceva sempre più intenso, avevo la testa pesante… sentire il suo respiro raggiungere ritmicamente le mie labbra mi rendeva debole, m’inebriava, come del resto qualsiasi cosa che provenisse da lui.

Allungò un braccio verso di me, e con una carezza mi costrinse a rialzare il volto e a guardarlo negli occhi.

“Te ne vuoi davvero andare…?” sussurrò, penetrandomi soltanto con lo sguardo.

Non resistetti più! Con tutta la forza che avevo lo spinsi contro il muro e catturai quasi con rabbia le sue morbide labbra tra le mie… soffocai un suo gemito di sorpresa misto a dolore in un bacio più profondo.

“No!” gridò scostando il volto “Non le labbra! Non devi!”

“Sta zitto!”

Sentii il profumo della pelle ancora bagnata scorrere nelle mie narici… persi del tutto la ragione…

Con un gesto veloce aprii la cinta che teneva chiusa la vestaglia e gli scoprii il petto brunito, così liscio e perfetto che ancora qualche gocciolina scivolava senza appigli su di esso… con una mano gli strappai via l’abito da dietro la schiena, scoprendogli le spalle, segnandogliele con un morso vorace…

“Ahi!” gemette.

Mi misi in ginocchio, colto da una furia simile a quella che provavo toccandomi dinanzi alle sue foto, ma ancor più reale, ancor più violenta… gli sollevai una gamba e la poggiai sopra la mia spalla… potevo sentire il suo respiro farsi ancora più veloce quando con le mani mi feci largo tra le sue cosce, aprendogliele più che potevo, e quando dopo un brevissimo istante le mie labbra iniziarono a succhiare con avidità i suoi testicoli, mentre la mia lingua, veloce come quella di un rettile, si spingeva tra le sue forme, tra le sue natiche, assaporando ogni sua parte, fuggendo via e tornando alla carica sempre più calda e bagnata.

“Pi..Pit… ah… cazzo… non ti fermare… d..dio…”

Era la prima volta che m’implorava, la prima volta che si era umiliato fino al punto di pregarmi di continuare ed io, che avevo recepito la sua lezione di abile maestro, proseguii ancora per qualche altro istante, solo per sentire le sue cosce che si tendevano e si chiudevano tremanti contro il mio viso… ma non appena sentii il suo sesso pulsare con troppa violenza, sentirlo incandescente, decisi che la cosa migliore da fare fosse fermarsi… farlo crollare… farlo soffrire… farlo ingoiare da quella voragine dove l’avevo gettato e dove lui disperatamente mi pregava di non lasciarlo cadere…

Sorrisi…

“Ah no!” gemette frustrato.

E mi staccai da lui, freddamente, soddisfatto. Lo lasciai cadere. Lo tradii.

La tortura era appena iniziata.

Mi rimisi in piedi e lo guardai per un attimo appoggiato al muro, il volto era macchiato da un’espressione sconvolta, le labbra gli tremavano ancora… e gli occhi… mi scrutava con rassegnazione, subendo ogni istante della sconfitta che gli avevo inferto… ma non riuscì a tenerli a lungo aperti, le sue palpebre si erano fatte pesanti, il suo respiro affannoso… i capelli d’oro si appiccicavano alle sue spalle sudate… ogni più piccolo frammento del suo corpo trasudava decadenti segnali di vita.

Era meraviglioso… più bello ancora di quanto lo avessi immaginato nei miei sogni.

Si portò lentamente una mano verso il ventre, ma io gliela fermai, e scuotendo la testa gli presi entrambi i polsi portandoglieli sopra la testa, contro il muro.

“Tu vuoi che spenga quel fuoco, vero…?” mormorai con la voce resa più bassa dal desiderio.

Non rispose nulla… si limitò a respirare e a riaprire appena gli occhi.

La sua luce azzurra mi raggiunse ed io intuii cosa c’era scritto in quello sguardo ferito… “Si, ti prego…” implorava in silenzio.

“Come preferisci che lo faccia…?” presi a dire iniziando con la mano libera a sbottonarmi la camicia “Vuoi che lo spenga facendoti bruciare con le dita…?” vidi il suo sguardo posarsi sul mio petto nudo “…oppure… con la bocca…? Lenti, dolci movimenti con la bocca…” avvicinai il mio volto al suo “…su e giù… su e giù… con le labbra… su e giù… succhiandoti e mordendoti un poco… lasciando scorrere la mia lingua in avanti e indietro… passandola sulla tua punta… su e giù… su e giù…” lo vidi ansimare e deglutire a fatica “Si… così…” mormorai, finendo di slacciarmi i pantaloni.

Sentii il mio sesso pulsare impaziente contro i boxer, lo accarezzai un poco da sopra la stoffa… sentii tra le dita il primo liquido vischioso, ma io… volevo ben altro… passai senza indugiare la mia mano sul suo sesso, completamente nudo e ancora duro… sentii il suo corpo scuotersi… sorrisi…

“Vuoi le dita…?” gli mormorai sensualmente sulle labbra.

Scosse debolmente la testa contro il muro.

“No…? Cosa…”

Si spinse un poco contro di me.

“Ahh… ora ho capito cosa desideri…” risposi e senza aggiungere altro liberai il mio sesso dai boxer e lentamente… molto lentamente… mi accostai a lui, fino a sfiorarlo con la mia pelle.

Sussultò, spalancò gli occhi azzurri… Dio… erano colmi di desiderio… umidi… liquidi… privi di volontà…

Iniziai a muovermi contro il suo ventre trattenendogli sempre le mani contro il muro, mentre con l’altra mano che avevo libera mi appoggiai alla parete per sentire di più quel contatto.

Gememmo all’unisono… mi morsi le labbra… quel calore violento stava per raggiungere anche me, ma non dovevo, non volevo perdere il controllo proprio in quel momento… ora che lui dipendeva unicamente dal mio abbraccio.

La nostra eccitazione si sfiorava e spingeva reciprocamente l’una contro l’altra, vogliosa, desiderosa di qualcosa di più…

Mai come in quella notte ho adorato fare l’amore, ma come in quella notte ho adorato lui… Gabriel… il mio angelo perduto…
Sentii le sue braccia tremare… doveva provare dolore a stare in quella posizione… ma non lo lasciai… non so perché… ma in quel momento l’idea che egli stesse soffrendo per causa mia mi eccitava…
Senza interrompere quei movimenti, abbassai un poco la testa, giusto il tanto per raggiungergli il petto con le labbra… con la lingua tracciai una linea immaginaria, passando da capezzolo a capezzolo, soffermandomi su ognuno di essi per succhiarlo con maestria, per mordicchiarlo fino a farlo diventare turgido… fino a lasciarvi sopra l’impronta del mio passaggio… fino a far gemere ripetutamente la mia vittima.
Risalii verso l’incavo del suo collo, lo cosparsi di baci e del sapore della mia saliva, chiusi gli occhi per gustarmi ancor di più quegli istanti e lentamente, tenendolo sempre bloccato contro il muro, misi una mano sotto alla sua coscia, costringendolo a sollevare la gamba destra contro di me.

“Cosa… vuoi fare…?” mormorò Gabriel, aprendo gli occhi.

Mossi la testa da un lato all’altro del suo collo, come in preda ad una languida ipnosi… sorrisi…

“Sssht… sta zitto e godi…!” sussurrai.

Non parlò più… comprese all’istante che non gli avevo dato un semplice consiglio, bensì avevo pronunciato un vero e proprio ordine.

Mi abbassai un poco, aprendogli le gambe con le ginocchia, m’introdussi tra di esse stringendomi a lui ed iniziai a sfiorare con la punta del mio sesso la carne delicata tra le sue natiche…

“Pi..Peter… a..ah…” gemette, soffocando ogni altra sua parola.

Appoggiai la testa contro il suo petto e continuai a muovermi dall’alto verso il basso, cercando disperatamente l’accesso al suo corpo…

Sentii che cercava una posizione migliore per concedermi di entrare… anche lui lo voleva, tanto quanto me… aprì un po’ di più le gambe affinché sfiorassi con cura quel punto… richiudendo ad ogni mio movimento le natiche attorno al mio sesso, in una danza morbida e sensuale.

Stavo godendo come un pazzo… mi stava donando tutto il suo calore, le sue attenzioni, assecondava ogni mia fantasia… assetato di quelle più spregiudicate.

Sfioravo e mi ritraevo, sfioravo ancora… e ogni volta che mi discostavo un gemito di frustrazione usciva dalle sue labbra.

“I..io non ce la faccio più… ti prego…” mormorò d’un tratto.

“Cosa… cosa vuoi Gabriel? Ho imparato la tua lezione… crudeltà allo stato puro… niente pietà…” lo sfiorai ancora “Niente pietà…” e ancora…

“A..ahh…”

“Niente… pietà…!”

Mi staccai da lui. Lasciai andare le sue braccia, ormai dolenti, che crollano quasi senza vita accanto ai suoi fianchi.

Era distrutto. Era stupendo in tutta la sua più completa fragilità…

Lo amavo! Cristo se lo amavo! Da spezzarmi il cuore in mille frantumi.

Ma non ne avevo abbastanza…

Avevo sete e fame e la febbre alta… volevo contagiarlo… prendermi il suo corpo e la mia rivincita.

Volevo stremarlo…

“E ora voltati!” dissi, girandolo violentemente. “Mani al muro!”

“Pit…” sussurrò con voce rotta.

“Si… così… proprio come un soldato… ed io come il tuo superiore… tu dovrai stare ai miei ordini… ti piace l’idea?”

Non rispose. Gli afferrai i capelli e lo tirai con forza verso di me.

“Ti piace l’idea, Gabriel?

“S..si…”

“Non si!” gridai “Sissignore, devi dire! Sissignore!”

“Mmm… s..sissignore…”

“Molto bene…” risposi più dolcemente , lasciando la presa sulla sua testa. “Ed ora… riprendiamo da dove eravamo rimasti!”

Feci scorrere le mani lungo i suoi fianchi, carezzandolo lentamente, sfregandogli a tratti la pelle scura, mentre mi appoggiavo con il petto contro la sua schiena.

“Tutto… tutto… devi sentire tutto di me…”

“Si..ssignore…” mugolò con le labbra pressate contro il muro. “Dammi… tutto… allora…!”
Appoggiai la testa contro le sue ampie spalle, chiusi gli occhi e portai due dita alla mia bocca.

“Non avere fretta…” conclusi, portando quelle stesse dita, con un’unica spinta, dentro il suo corpo.

Lanciò un gemito strozzato, ma dopo un primo momento di resistenza i suoi muscoli si sciolsero, divenendo più elastici e consentendomi di entrare più a fondo.

Era meraviglioso sentirlo in quel modo… gridare e dimenarsi contro il mio corpo…

Il suo calore era così intenso da ottenebrare ogni cosa di me… ogni ricordo… quello che ero una volta, il ragazzo chiuso e pauroso, che detestava la gente e i rumori, un piccolo fallito di quartiere… là dentro, in quella stanza, assieme a lui mi sentivo libero, libero di essere… con lui mi ero scoperto… lui era stata la mia rivolta e me ne rendevo sempre più conto, ogni volta che dopo grida, insulti e rabbia ci fondevamo in quel modo, assaporando insieme, l’uno i profumi del sesso dell’altro.

Spinsi con più forza dentro di lui, muovendo le mie dita all’interno come se dovessi scovare un cunicolo e fuggire via attraverso il suo corpo… non mi fermai… non mi fermai finché non lo sentii gridare con tutto il fiato che aveva in gola e implorarmi di dargli di più… allora rallentai la mia tortura per farlo placare, prima del colpo finale.

“Ti piace…?”

“S..sì… sì… ah… sì…” gemette fuori di sé.

“Si… risponde… si-si-gno-re!” sibilai, scandendo ogni parola con una spinta all’interno del suo corpo.

“Sissignore…”

“Non ho sentito!”

“Sissignore!”

“Non ti sento!”

“Siss…”

“GRIDALO!”

“FANCULO PIT!” urlò, scaraventandomi lontano.

Andai a sbattere contro il letto, e rimasi a fissarlo ansante per un momento.

Lui non si era mosso dalla sua posizione… stava tremando, le mani appoggiate al muro e la fronte umida contro di esso.

Sembrava un animale ferito…

“Basta coi tuoi scherzi del cazzo!” ruggì “Arriva fino in fondo! Dammi…”

“Questo!” dissi, rialzandomi ed entrando in lui con una colpo solo.

Si tese violentemente all’indietro, per un attimo credetti che si stesse per spezzare… il dolore doveva essere stato lancinante.

Passai le mani sotto alle sue braccia, afferrandogli le spalle e lo strinsi con forza a me.

“Perdonami…”

Si scosse un poco, mugugnando qualcosa, poi iniziò a muoversi contro di me.

“Che… che cazzo di Comandante sei, se chiedi perdono a un tuo soldato!” disse “Avanti scopami!”

“Non ho bisogno del tuo permesso!” risposi deciso, ed iniziai a muovermi in lui.

I nostri gemiti si confusero, le mie braccia scesero a cingergli la vita… lui era mio, mio, mio! Le nostre dita s’intrecciarono con forza sulla sua pancia… io lo tiravo contro di me, come se quell’unico ponte tra noi due non bastasse più.

Era bello sentirlo gemere… era bello averlo… ma… un nuovo desiderio si stava facendo largo nel mio cuore… io volevo essere preso da lui.

D’un tratto lo sentii barcollare un poco, le sue gambe tremarono per il troppo sforzo o per il piacere, e crollò a terra portandomi con sé.

Non ci staccammo nemmeno per un istante, lo spinsi contro il tappeto rosso e gli aprii le gambe con le ginocchia, appoggiando le mani sulla sua schiena.

In quella posizione potevo sentirlo in modo incredibile e anche lui… poteva ricevermi tutto.

Entrai ed uscii dal suo corpo, ascoltando, in pieno delirio il delizioso rumore di quel movimento… soltanto i nostri gemiti, le grida, le preghiere di non arrestare quel piacere oltre ogni limite soverchiavano il silenzio.

Avrei voluto fondermi con lui, mi distesi così, completamente, sulla sua schiena e gli passai un braccio attorno al collo trattenendolo contro di me, mentre gli baciavo avidamente, quasi con disperazione le spalle.

E ai miei baci… si mischiavano le mie lacrime.

“Peter…” lo sentii sussurrare d’un tratto “Peter…” ripeté con quella voce che, in quel momento, mi parve dolcissima “Vieni…” mi sentii morire “Vieni, caro… vieni…”

“Ga..Gabriel…” gemetti, perduto completamente in lui.

“Si… avanti…” continuò ad incitarmi.

Sentii l’ultima, decisiva lingua di fuoco, bruciarmi in corpo… prendermi tutto…

“Vieni…”

“Ah… non… pronunciare… più… quella parola…” gridai, sentendo il piacere correre rapido verso il punto dove sarei esploso.

“Vieni…”

Lo raggiunse.

“GABRIEL!” gridai, spalancando gli occhi e bloccandomi come paralizzato dentro di lui.

“Si… lo sento…” mormorò appagato “Il tuo liquido… la tua essenza…”

A quelle parole… a quell’immagine… non resistetti più… non sopportai oltre… le braccia rimaste tese a sollevarmi nell’attimo più alto del piacere iniziarono a tremare con violenza… così il mio corpo… crollai sulla sua schiena, ed egli… fece qualcosa che mai aveva fatto prima…

Si spostò da sotto di me e mi voltò dolcemente supino, prese una coperta dal letto… mi ricoprì e mi prese tra le braccia, stringendomi forte a sé per placare i miei spasmi e il mio pianto.

 

Ci addormentammo così per qualche ora, ma non dormimmo molto, almeno io non riuscii a farlo… dopo aver provato tutte quelle emozioni iniziai a fare degli strani sogni, confusi, sovrapposti… il suo volto si sovrapponeva a quello di Harry, il mio ex amico… oppure a quello anonimo di un poliziotto che andava a casa dei miei e picchiava mio padre ed io… in mezzo alle grida e a tutto quel sangue godevo… godevo proprio come qualche ora prima avevo goduto con lui nel suo corpo, spingendomi a fondo nelle ferite che io stesso gli avevo aperto.
Pensai o forse sognai il Doll’s House… vidi i volti grotteschi delle signore attempate e divorate da una lussuria troppo a lungo repressa, i volti candidi delle ragazzine che curiose desideravano perdere la loro innocenza, lasciandosi invadere da quei corpi intoccabili e non pericolosi… perché sì… le madri le aspettavano a casa in pensiero… o forse invidiose della libertà ormai perduta, incatenata ad un ruolo che non concedeva respiro.

Ma io ero stato con lui, io l’avevo toccato, baciato, penetrato, umiliato… io avevo infranto il sogno e le sue certezze… avevo gettato negli occhi di tutta quella gente rassicurata dalla distanza di un tavolo, aspra terra scura… perché in quello che ci univa, in quel delirio in cui io e Gabriel ci ritrovavamo fratelli, non vi era nulla di poetico.

Ci accoppiavamo come bestie, stracciavamo sentimenti, calpestandoli… sputavamo in faccia ai sogni e alle buone regole del mondo… ci insultavamo e poi facevamo l’amore… lui mi faceva del male con le sue parole di ghiaccio ed io glielo restituivo quel male, goccia dopo goccia, con il mio corpo di fuoco… eppure in tutto questo… nella rudezza di un rapporto che non può essere diversamente tra un ragazzo povero senza futuro e un altro senza aspettative e speranze, eravamo simili e in qualche modo uniti.

La possibilità di guardare e godere spensieratamente è una chicca riservata ai ricchi… ma noi ragazzi di strada dobbiamo pagare, anche per una sola ora di piacere… loro possono concedersi il lusso di portare lustrini al canto dell’ultima moda… si, parlano di rivoluzione i figli di papà… e intanto, tenendo stretto a sé il compagno del peccato, con un occhio guardano già lontano… all’orizzonte, verso la dolce fanciulla che diverrà madre dei loro figli, in una casa costruita grazie a un duro e onesto lavoro.

Bollocks!

Griderebbero gli americani, i compagni americani!
Noi inglesi invece ci spippettiamo al ritmo delle dolci sonate dei Beatles, e ci basta indossare un abito
cool  e imparare uno slang sconosciuto alle generazioni precedenti per fare la rivolta.

Oh no, amico mio… se vuoi essere rivoluzionario, devi esserlo fino in fondo.

Butta nel cesso l’ultimo vestito firmato, spacca in due il disco del momento e vai… gira nudo per le strade benpensanti a cantare la tua canzone! E che quelle note siano stridenti e fastidiose alle orecchie della gente!
Non coltivare il sesso come un bell’oggetto da guardare, ma prendilo e fottitelo, caccia fuori l’istinto e la rabbia… si, come in questa lurida stanza di periferia, in cui regna il silenzio, mentre fuori imperversano i rumori festanti dell’ultima ideologia di stronzi che hanno il culo parato… si, come in questa stanza, in cui si chiede sesso e sesso si dà, in cui non c’è poesia, ma… senza dubbio c’è verità.

“Come v’illudete, gente!” mormorai, sfiorando il volto del mio amante, profondamente addormentato “Pagate per un orgasmo mentale! Io almeno… pago per una scopata!”

“Pago per una scopata…”

Cristo quanto mi faceva male questa verità… scossi la testa… ero ancora un teoreta del cazzo, avevo ancora gli occhi ripieni di goffi sogni… speravo ancora nel suo amore…

Eppure in quella stanza… la mia rivoluzione l’avevo fatta! Io non ero intenzionato ad offrirgli una vita, non volevo rimetterlo sulla retta via, neppure io sapevo cosa fosse, volevo lui e lui avevo avuto, ma… non del tutto!
Volevo ancora di più… essere uniti fin nell’anima, nella notte, nel suo battito, che ritmico da tempo ormai mi stava drogando… volevo essere suo complice… amico… fratello… amante… uniti, nella nostra rivolta…

“Gabriel…” gli sussurrai dolcemente sulle labbra.

“Mmm…” mormorò, iniziando a destarsi.

Lo guardai ancora a lungo, perdendomi in ogni frammento del suo volto perfetto… era un angelo, non poteva essere diversamente… un angelo venuto dall’inferno per insegnarmi a vivere…

“Ciao bambino…” sussurrò, non appena aprì gli occhi.

Sorrisi… un po’ stupito… non mi aveva mai chiamato così.

“Ciao…” risposi.

“Te ne devi andare…?”

“No… non ancora… almeno non credo…”
C’era uno strano tono di dolcezza nella sua voce. Mi spiazzò per qualche istante…

D’un tratto alzò una mano ed iniziò a passarmela sul collo lentamente, seguendo con attenzione il profilo della mia catenina… continuai a seguire con lo sguardo il suo gesto… era così strano, inconsueto da parte sua.

Sentivo il cuore che mi pulsava con forza… se in quell’istante mi avesse chiesto di entrare in me glielo avrei lasciato fare senza indugi… come una ragazzina alla sua prima volta… innamorata… sì… proprio come lo ero io…

Gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa…

“Sei stato bravo, sai…” prese a dire dopo poco “Mi hai fatto godere fino a star male stanotte…”

Un brivido caldo attraversò veloce la mia schiena. Mi stavo eccitando di nuovo…

“E’ stato bellissimo, Pit…”

Deglutii, poi, senza smettere di guardarlo, mi avvicinai a lui…

“Tu non… non… vorresti… insomma… io sono venuto… ma tu… non ti andrebbe…?”

“No, Pit…” soggiunse, scuotendo la testa.

“Ma perché…?”

“Te l’ho già detto… puoi far tutto con me, tranne due cose… baciarmi sulle labbra e lasciare che sia io a prenderti!”

“Ma… ma è assurdo…” mormorai con un filo di voce… infatti, era proprio ciò che volevo fare… perché non me lo permetteva? Perché?

“Lo sai… una prostituta non…”

“Smettila!” saltai su, esasperato “Basta con queste stronzate! Tu non sei la mia puttana! Non lo sei!”

Rimase in silenzio a fissarmi con un mezzo sorriso sulle labbra.

“E cosa sono allora…?” domandò dopo poco.

“Tu sei…” ma mi arrestai… già, cosa era lui per me?

Molte volte gli avevo trovato un nome… Gabriel la mia rivolta… Gabriel la mia libertà… Gabriel… ora cosa era diventato Gabriel per me?

“Sei il mio amante!”

Alzò il sopracciglio e mi guardò assumendo un’espressione quasi divertita.

“Io sono cosa…?” sospirò, alzando gli occhi al cielo “Pit… bambino mio, ti stai sbagliando… gli amanti non si pagano…” disse con aria di scherno.

“Infatti io… non voglio pagarti… non voglio pagarti più…”

Non so come mi uscirono quelle parole… io non volevo non pagarlo per togliergli il cibo dalla bocca, volevo soltanto smettere di umiliarlo.

“Non vuoi pagarmi? Bello stronzo!” rispose lui, ma senza alterare la voce.

Sembrava che in un certo senso quasi se lo aspettasse.

“No… perché io non sono un tuo cliente e tu non sei la mia puttana…” lo fissai profondamente “Una troia non asciuga le lacrime al suo cliente e non coglie le emozioni dopo un amplesso… non ricopre con un panno caldo l’uomo da cui si è fatta scopare e lo stringe a sé, portandoselo a letto e addormentandosi accanto a lui… no, Gabriel, sei tu quello che si sta sbagliando…” sospirai “Tu non vuoi essere la mia puttana!”

Vidi ritornare sul suo volto la consueta maschera di ghiaccio… forse non avrei mai saputo nulla di lui, dei suoi segreti e della sua vita, ma ero riuscito a dirgli quello che sentivo e quello che volevo… ora stava a lui decidere se continuare ad umiliarsi per paura, oppure uscire da quel fango assieme a me.

“Non credi che sia ora di andartene, Pit…?” disse, guardandomi bieco.

Non riusciva più a mantenere il controllo, vidi le sue labbra vibrare, come se da un momento all’altro potesse scattare di rabbia… non riusciva più a gelarmi con le sue parole taglienti e crudeli, senza colore.

Forse… non riusciva più ad essere indifferente…

“Si, me ne vado, Gabriel… come vuoi… come vuoi…” mormorai, facendo per alzarmi dal letto, ma lui mi trattenne per un braccio.

“I soldi!” disse seccamente.

Ci guardammo per un lungo istante…

“Perché mi costringi? Perché mi costringi a farlo ancora…? Io non voglio…”
Sentii la stretta al mio braccio aumentare, ma non feci nulla per liberarmene.

“Potremmo essere molto di più di tutto questo… forse non te ne sei accorto, Gabriel… ma io sono come te… esattamente… come… te!”

“Stronzate!”

“Non sono come quelli là fuori… non ho buoni sentimenti… sono una bestia… un animale da letto… un bastardo ambizioso… altrimenti…” sorrisi esattamente come faceva lui “non ti avrei scelto!”

Lasciò il mio braccio, io mi alzai e m’infilai i pantaloni, fissando i primi raggi dell’alba fuori dalla finestra.

“Non ci meritiamo tutto questo! Noi due… valiamo molto di più!”

“Che cosa vuoi fare…?” disse, dopo un istante di silenzio.

Mi voltai lentamente verso di lui… lo fissai, maschera di ghiaccio senza espressione… dura… decisa…

“Voglio lavorare con te!”

Spalancò gli occhi. Scosse la testa. Scoppiò a ridere.

Quella risata mi ferì.

“Tu vuoi… Ma ti sei guardato?” esclamò con tutta la cattiveria che aveva dentro.

Non mi mossi dalla mia posizione.

“Sei solo un povero pezzente! I peli del tuo pube sono quelli di un bambino! Chi vorresti che ti guardasse? Eh, Pit? Dimmi chi ti vorrebbe…?”

“Tu… mi hai voluto…” dissi, cercando di trattenere la rabbia.

“Oh no, sei stato tu a prendermi! Io, mi sono soltanto venduto!”

Iniziò a ridere, forte, sempre più forte… spazzò via quel poco di dolcezza e di verità che si era creata fra noi dopo l’amore… la spazzò via volutamente e rincarò la dose…

Era tornato ad essere lui… la maschera d’angelo era caduta… ed eccoli qui, nuovamente i suoi occhi da demonio, ignari di ogni pietà.

“Sei ridicolo, Pit! Io ti ho preso solo per i tuoi soldi! Non sei niente! Sei insipido, sciocco, inutile…” si mise a sedere sul letto, avvicinandosi più a me “Perché non vai là fuori, insieme ai tuoi amici… è lì la tua gente… non qui dentro, non qui… Questo mondo non fa per te, bambino mio…”

“Sì, forse hai ragione… non fa per me…” gli feci eco, mentre una ad una iniziavo a strappare le banconote sotto al suo naso “Ti credevo diverso, Gabriel… sei solo un debole che ha paura di essere quello che è… sei tu ad essere un niente…” proseguii con le lacrime agli occhi “Sei senza speranza!”

Continuò a fissarmi senza far trapelare alcuna emozione, ed io gli strappai gli ultimi soldi sotto agli occhi.

“No, non ti pago… perché tu non sei la mia puttana… non ti pago, perché ti rispetto… c’è mai stato qualcuno in vita tua che ti abbia rispettato…? Dimmi la verità, Gabriel, c’è mai stato qualcuno…?” vidi il suo volto tingersi lievemente di rosso… lo stavo ferendo… lo stavo uccidendo, ma non mi fermai “Quante volte le tue ali sono state spezzate, angelo mio…?” proseguii, lasciando che le lacrime scorressero libere sulle mie guance “Quante volte hai chiesto silenziosamente amore e ti è stata risposta violenza…? E’ questa la tua vita…? Dal tuo sguardo si direbbe di sì…!” lasciai cadere sul suo cuscino gli ultimi pezzettini di banconote “Simile a questi soldi che ora sto strappando davanti a te… simile a questi… identico… come tutte le volte che hanno deturpato la tua vita senza batter ciglio e tu… come queste banconote senza valore, te lo sei lasciato fare…” cadde l’ultimo frammento di carta “Sei il peggiore di tutti, angelo mio…! Codardo!”

Mi avviai verso la porta… potevo sentire il suo respiro… intravidi dallo specchio accanto a me che stava piangendo.

Dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non tornare indietro e prenderlo tra le braccia.

“Io sono a posto, Gabriel… io la mia rivoluzione l’ho fatta! Avrei solo voluto continuarla con te!” aprii l’uscio “Non ci vedremo mai più, angelo mio!”

 

Quando l’aria fresca del mattino mi accolse, riuscii a tirare il primo sospiro di sollievo… mi era sembrato di morire dentro quella stanza, o forse ero morto davvero… il vento mi schiaffeggiò il volto, ma non riuscì a cancellare le mie lacrime.

Sull’asfalto vi erano i resti della notte precedente, della festa consumata… cicche di sigarette forse mai spente, bottiglie rotolate in un angolo della strada, dimenticate dopo essere state usate… c’era anche un braccialetto d’argento… lo raccolsi e notai l’incisione di due iniziali… ‘A’ e ‘V’ … stronzate da fidanzatini… eppure provai tenerezza per questi innamorati immaginari creati dalla mia mente.

D’un tratto udii dalla finestra il ritmo di note conosciute… Iggy Pop…

“Il nuovo che avanza! Ehy Pit! E’ il nuovo che avanza!”

Di quale nuovo Harry parlasse io non lo ricordo neppure… il delirio e la follia di quei tempi sarebbe volato via rapido per lasciare spazio ad un altro nuovo, ad un altro delirio di massa, ad altre bocche che pronunciavano la parola ‘rivoluzione’… ci si avviava verso il Capodanno del 1980, ma io non vedevo cambiamenti…

Il delirio sulla mia pelle si era consumato, rapidamente, in quella spoglia camera d’albergo… la mia rivoluzione era iniziata e già compiuta, ma io mi sentivo incompleto… senza di lui ero incompleto.

Mi allontanai per la mia strada, eppure, mentre camminavo, sentii su di me lo sguardo di qualcuno, degli occhi su cui il ghiaccio si era sciolto e aveva lasciato il posto alle lacrime… degli occhi che coltivavano il mio stesso rimpianto, e non avevano mai smesso di guardarmi.

Fino all’ultimo… uniti…

Nell’istante dell’addio… uniti…

Ed un unico pensiero: “A che cosa era servito tutto questo…?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Track 11: “brothers in arms”

 

La risposta a quella domanda… il senso a tutto ciò che ci circondava lo trovammo in seguito… mesi dopo, quando, io, divenuto ballerino di successo, l’incontrai nel mio locale e come tempo prima, accadde che anche quella volta finimmo a letto insieme.

“Sei bravo come ballerino!”

“E tu che non mi davi fiducia!”

Finii in fretta di rollarmi una canna, poi ricaddi pesantemente sul letto, appoggiando la testa sulla sua spalla.

“Non credevo che ti avrei ritrovato qui… pensavo che stessi ancora facendo quel misero lavoro di benzinaio sull’autostrada!”

Tagliente come sempre.

“Si, e infatti lo faccio… di giorno, voglio mettere da parte un bel po’ di soldi… me ne voglio andare da qui!”

“Londra non ti basta più?”

“No, cazzo, è superata!”

“E dove vorresti andare?”

“Negli States! Cambiare aria! Lì il lavoro lo trovi più facilmente, di locali come questi ce ne sono a bizzeffe, basta fare richiesta… poi se ci vai già con un po’ di soldi in tasca sei a cavallo!”

“Ci sarà anche più lavoro, ma non c’è selezione… un locale vale l’altro e la gente non…”

“Si, lo so… quello che qui è moda, là è consuetudine… ma alla fine che m’importa!”

“Pit…”

“Gabriel, Cristo… vuoi ancora farmi credere che alla gente interessi davvero conoscere la differenza? A loro basta qualcuno con cui riempirsi gli occhi, qualcuno che ci sa fare per consentirgli di tornare a casa e farsi un’allegra sega… per allietare le loro noiosissime notti, poi, chi diavolo sia quello che ti ha ballato davanti al naso non gliene frega niente!”

“Questo non è vero!”

“Il tuo discorso è superato… tu sei ancora rimasto all’idea della leggenda, del glam a tutti i costi, dello scandalo che ti sbatte in prima pagina, il punto è che oggi tutti possono scandalizzare, quindi io sono come te, tu come me, non c’è differenza…” gli gridai in faccia eccitato.

Gabriel rimase a guardarmi per qualche secondo, con il suo solito, consueto sorrisetto sulle labbra.

“Vuoi prendere per il culo me, Pit? No,avanti, dillo… vuoi davvero prendermi per il culo?” esclamò.

Non ribattei, rendendomi conto di aver parlato troppo.

“Tu sei l’ultimo arrivato e parli in questo modo? Ma che cosa ne sai di quel che vuole la gente! Sei solo un pivello moccioso che appena svezzato ha fatto il suo exploit esibizionista davanti a quattro stronzi!” scosse la testa “E con questo credi di aver capito tutto! Credi di aver capito il mondo e le esigenze dei clienti…” mi prese la canna dalle mani “Ci vuole classe, marmocchio, per fare certe cose, classe… cosa che tu non hai… cosa che tu hai visto soltanto nei tuoi film mentali quando ti facevi le pippette nella tua stanzetta a White Chapel!”

“Devi sempre ricordamelo, eh?” sibilai, riprendendomi lo spinello “Non smetterai mai di farmi notare la nostra differenza…”

“Per forza! C’è differenza!” rise Gabriel.

“Pensi che un ‘provinciale’ non possa diventare nessuno, eh? Pensi che sia tanto rozzo da non poter raggiungere il tuo livello? Come ti sbagli, amico… e mi sembra di avertelo dimostrato stanotte!”

Si voltò a guardarmi con interesse, poi mi sorrise ancora.

“Così mi piaci… era proprio quello che volevo sentirti dire…”

Gli lanciai un’occhiata minacciosa.

“Sta bene attento! Non prenderti gioco di me…”

“Si, così… continua…” proseguì, Gabriel, rendendo più sensuale il tono della sua voce.

“Gabriel…” lo intimidai . Stavo trattenendo a stento la rabbia.

“Si, Peter… tutta questa grinta… tutto quest’odio… tutta questa forza disperata… potresti ammazzare qualcuno in questo momento… volevo portarti proprio fino a questo punto!”

“Ma che diavolo stai dicendo?”

“Vieni qui, mio piccolo provinciale!” sussurrò Gabriel, passandomi una mano dietro alla testa e avvicinandomi il collo alla sua bocca. Me lo morse con avidità, me lo succhiò con gusto, divorandolo.

Mi dimenai un poco, cercando di liberarmi da quei gesti dominanti… detestavo essere in suo completo potere, detestavo essere insultato e poi preso da lui in quel modo, ma allo stesso tempo, la cosa mi eccitava da impazzire.

Mi posizionai sopra di lui e sentii le sue mani afferrarmi le braccia, tesi con forza i muscoli ed iniziai a muovermi lentamente.

Le nostre eccitazioni entrarono in  contatto, ma non avemmo neppure bisogno di sfregarle un poco l’una contro l’altra che erano già bollenti.

“Apri queste cazzo di gambe!” disse spalancandogli le cosce con le ginocchia.

Gabriel non fece resistenze, fatto com’era, ogni mio movimento lo faceva bruciare… si mise a ridere… tutto gli sembrava leggero, morbido, caldo e cotonato… gli sembrava di sentire la sua musica… il battito della notte picchiava duro nelle sue tempie e nelle sue vene… d’un tratto una violenta, improvvisa fitta gli attraversò il corpo… ma quando il dolore scomparve, riprese a ridacchiare e a godersi il suo viaggio.

Me lo feci velocemente, rudemente, anch’io in preda all’effetto della marijuana… spinsi a fondo in quel corpo caldo che, elastico, mi accoglieva volentieri, portandomi verso la sfera di un piacere assoluto.

Passai le mani sotto alla sua schiena e lo afferrai per le spalle, sentii il suo respiro ansante alle orecchie e questo m’ inebriò ancor di più… venni dentro di lui dopo pochi minuti.

Ricaddi sul materasso e rimasi per un istante ad occhi chiusi. Avevo provato  forti emozioni, ma tutto si era spento in fretta, poteva essere l’effetto della droga? Se fosse stato così, significava che Gabriel non riusciva più a darmi quel piacere di una volta… no, cazzo, quello non poteva finire, non poteva essere scomparsa così l’euforia di quei tempi, dovuta unicamente al sesso… non potevo aver bisogno della droga per avere un minimo di eccitazione, di guizzo vitale.

“Peter…”

La sua voce mi distolse dalle mie paranoie.

“Mmm…?”

“Hai dato il meglio di te!”

“Ma sta zitto, eri completamente fatto!”

“No, ascolta… mi sei piaciuto… mi piace farlo con te… mi piace come balli… mi…”

“Gabriel? Quante te ne sei fumate?” ribattei divertito, scoppiando in una risata.

“Cazzo, non sono fatto! Sto parlando seriamente! Stasera sono venuto qui per proporti una cosa, poi abbiamo scopato e mi è passato di mente, ma ascolta…”

Mi voltai verso di lui, e aggrottai le sopracciglia.

“Che vuoi?”

“Sei un bellissimo ragazzo, balli davvero bene, hai carattere, rabbia, sensualità, piaci al pubblico… non si stancano di guardarti e questo vuol dire molto…”

“E allora?”

“In questi mesi in cui non ci siamo visti, ho iniziato a lavorare per un tizio che viene da Parigi, ha diversi locali qui a Londra, il Cock’s, il Pussy Cat, il Lumière, e vuole ricomprarsi il Doll’s… ma non è questo il punto… ha l’occhio lungo, capisce quando è il momento di agire e quello che ci vuole per attirare la gente… io gli piaccio ed ho iniziato a danzare in un suo locale a Ridden Street, ma ha in mente qualcosa di grosso… qualcosa che nessuno ha mai fatto prima… uno spettacolo a due…”

“Gabriel, se stai cercando di dirmi…”

“Aspetta un attimo… pensaci bene… ormai Londra pullula di locali, di ballerini bravi ce ne sono, ma gli spettacoli cominciano ad essere quasi tutti uguali e molti vanno deteriorando…”

“Io sono originale…”

“Sì lo so, non prenderla come una cosa personale, dai! Però sai bene che è la realtà dei fatti, hai visto anche tu gli altri ragazzi, non sono un granché, mentre noi due…” mi prese le mani “noi due, siamo i migliori!”

“Noi?”

“Si, noi…”

La Marijuana mi aveva annebbiato la vista e ammorbidito il cervello, e vedere le sue labbra muoversi così dinanzi alle mie, mi avrebbe fatto cedere ad ogni sua richiesta.

“No, aspetta, Gab… che vuoi dirmi? Io non ho nessunissima intenzione di andare a lavorare per quel fottutissimo leccaculo francese, sto bene dove mi trovo!”

“Peter! Lavoreremo insieme, uno spettacolo mai visto prima, noi due su uno stesso tavolo, a condividere lo stesso palco… vedrai come impazziranno i clienti quando ci vedranno muovere l’uno contro l’altro, come se lo facessimo proprio dinanzi a loro!”

Aveva gli occhi rossi e splendenti! Era completamente andato per quell’idea.

Mi tirai su a sedere e mi allontanai da lui.

“Una volta ti avevo chiesto di lavorare insieme, e ricordi la tua risposta? … Pit, ma ti sei guardato? Sei ridicolo!” mormorai, fissando il vuoto dinanzi a me.

“Dai, cazzo, adesso non farmene una colpa!” disse, poggiandomi una mano sulla spalla.

“Ho il mio orgoglio, Gabriel, nessuno ha il diritto di prendersi gioco di me e tanto meno tu!” mi alzai dal letto ed iniziai a rivestirmi.

“Dove diavolo vai?”

“A casa mia!”

“Non starai dicendo sul serio? Pit!” gridò, saltando in ginocchio sul materasso “Questa è l’opportunità che stavamo cercando, potremmo guadagnare un sacco di soldi e stare insieme!”

“Gabriel…” dissi, alzando la testa e guardandolo dritto negli occhi “ti sei mai chiesto che forse non è con te che voglio stare?” raggiunsi la porta “In quanto alle opportunità, vado a cercarmele da solo!”

 

Lo lasciai sbigottito su quel grande letto. Una volta chiuso l’uscio mi sembrò di sentire i suoi occhi ancora su di me, non si aspettava di certo un comportamento del genere da parte mia… ma ormai era passato molto tempo e la sua lezione mi era servita a qualcosa… il vecchio Pit, il ragazzino inesperto e timido era soltanto un vago ricordo… ora potevo dire che eravamo finalmente pari.

Non dovevo invidiargli più nulla.

 

Una settimana dopo iniziammo a lavorare insieme.

Il leccaculo francese si chiamava Simón Durant, era un tipo raffinato, come vuole dimostrarsi la tradizione del suo paese, e molto schivo.

M’incontrò un’unica volta, quando io e Gabriel andammo a parlare con lui per firmare l’accordo, poi rimase sempre dietro le quinte, e da dietro le quinte, orchestrava le sue azioni, dirigeva i nostri atteggiamenti, osservava ogni minimo dettaglio, con un’attenzione maniacale, dovuta alla sua astuzia luciferina.

Ci garantì il successo.

Diventammo le sue preziose macchine da sesso, degli elaborati congegni senza difetti, deliziose leccornie per il popolo di ‘voyeur’ che animava le notti londinesi.

E i clienti erano tanti… la maggior parte di loro erano uomini, ma il locale aperto da Mr. Durant, l’ExoWave (che stava per Exotic Wave) non era un posto per gay, raccoglieva chiunque, ogni raffinato, ogni esigente, chiunque esprimesse al meglio le sue fantasie erotiche… e noi ragazzi non eravamo altro che la terra promessa, la spiaggia esotica a cui volevano arrivare, che agognavano disperatamente, ritornando lì ogni notte e pagando, pagando, pagando ancora per qualcosa che non avrebbero ottenuto mai.

Mr. Durant era stato molto chiaro con noi… “portateli alla soglia della disperation!” ci aveva detto con quel suo inglese francesizzante… “ et je vous promets que personne ne vous toucherà!” e aveva aggiunto “Le cul est le votre, mais les corps sont les leurs!”

La regola era sempre la stessa, far vedere e non far toccare, far avvicinare, sfiorare, ma non concedersi mai… il tutto però questa volta era contornato da un certo gusto per l’esasperazione, una vena sottilmente sadica era il condimento voluto dal francese per quegli uomini.

E noi ragazzi dovevamo saperlo fare, altrimenti eravamo fuori… perché lui ci guardava, lui ci giudicava, lui ci istruiva, come i migliori animali da circo, e il fallimento, un solo fallimento, avrebbe decretato la fine di tutto.

Gabriel ed io imparammo in fretta.

Il nostro show era l’ultimo della notte, era il migliore, quello più atteso e più pagato.

Ogni volta davamo sempre il meglio, i clienti andavano in visibilio per noi, e Simón era convinto di aver trovato il modo per spingere quegli uomini dall’eterosessualità all’omosessualità… ci chiedeva di fare sempre di più, di danzare fino a creare movimenti impossibili ed esasperanti… “finché non vedrete le lacrime negli occhi di quella gente!”

E così facevamo, perché la sua era una sfida, cambiare l’identità sessuale di qualcuno era divenuto il suo scopo… chiunque fosse entrato nel locale di Simón Durant sarebbe dovuto uscire diverso.

L’ExoWave era diventato nel giro di pochi giorni famoso, presto divenne una leggenda.

Il francese contava i suoi esorbitanti incassi, deliziandosi sempre di più, migliorando ogni cosa, spingendola al massimo, aumentando generosamente la paga anche a noi, schiavi di quel contratto senz’anima, e la bocca dell’inferno, che era diventata l’entrata del nostro locale, accoglieva ogni notte centinaia di uomini  famelici e febbricitanti.

Simón aveva la prova del suo successo quando qualcuno di loro andava da lui, supplicandolo con lacrime e bigliettoni di poter avere un rapporto con me o con Gabriel, o con entrambi se fosse stato possibile.

Ma Simón era onesto, Simón non mancava alla sua promessa, li salutava con un rifiuto, ed essi se ne andavano per tornare la sera successiva.

La sua tattica era perfetta.

E noi eravamo al sicuro da tutto… potevamo fare qualsiasi cosa… tranne una… sbagliare.

Eravamo diventati due automi, racchiusi nell’aura metallica della perfezione, tutti ci adoravano, tutti desideravano la performance di Giglio della Notte e di Nasty Boy (questo era diventato il mio nick), eravamo due angeli che avevano raggiunto il loro paradiso, uguali, identici al dio che li aveva creati.

Ma presto iniziammo a stancarci di tutto questo.

Proprio nel momento in cui non avremmo dovuto, proprio quando Simón era pronto a farci diventare l’icona della sua follia.

“Andrete a Parigi!”

Queste erano state le nette parole di Mr Durant.

Ci aveva scelto. Ed era stata una decisione irrevocabile.

Parigi significava… assoluta perfezione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TRACK 12: “JESUS TO A CHILD”

 

 

Era uscito sbattendo la porta.

Avevamo litigato. Un’altra volta.

Rimasi solo nel nostro appartamento francese, fissando l’uscio bianco senza pronunciare una parola.

Mi sentivo vuoto, tremendamente vuoto. E solo, in quell’istante.

La sue grida mi facevano male, e sebbene, fossimo diventati molto simili a due creature senz’anima, lui riusciva ancora a trovare il modo per ferirmi.

Dovevo essere felice di questo? O dovevo considerarla una sconfitta?

Ero divenuto un’icona del sesso, esattamente come Monsieur Durant aveva richiesto, mi ero spogliato dei miei sentimenti e avevo gettato dinanzi ai piedi di quell’uomo la mia anima, eppure… le parole della persona a me più cara riuscivano a trovare ancora uno spazietto dentro di me per intrufolarsi nel mio cuore. Nel bene e nel male.

Se Simón l’avesse saputo, sarebbe stata la fine per me, per il mio sogno, per i tutti i miei soldi… non sarei stato abbastanza perfetto.

Lui… desiderava portarci a rassomigliare a delle statue di marmo… novelli David, ricostruiti dalla sua sapiente mano di artista.

Monsieur Durant non viveva con noi in Francia, era rimasto a Londra, ma il suo controllo ci raggiungeva comunque.

Gabriel fra i due era il più fragile, la sua delicatezza di angelo caduto non l’aveva abbandonato, il più sensibile agli ordini e alle richieste delle nostro caro Simón… era ossessionato dai suoi occhi di ghiaccio, da quell’azzurro piatto e senza scosse con cui ci guardava. Li sognava la notte, li rivedeva di giorno, alcune volte lo scoprivo piangere e tremare in un angolo del letto, e soltanto quando mi avvicinavo io e guardava nei miei di occhi, riusciva a calmarsi e lentamente, ad addormentarsi.

Simón c’era, sempre e comunque.

Eravamo i suoi protetti e allo stesso tempo, le sue vittime.

 

Anche quella notte, Gabriel era andato a lavorare, nonostante una brutta crisi, dovuta alle allucinazioni e alla droga, che aveva avuto nel pomeriggio.

I tempi erano cambiati, le droghe erano cambiate.

A Parigi ci facevamo di crack, non potevamo esimerci… gente come noi doveva provare, gente come noi doveva cambiare… eravamo i portavoci della nuova epoca… portavoci dai volti sconosciuti, immersi nella folla che guardava sempre di più a sé stessa.

Gli anni ’80 erano nel mezzo del loro splendore, ma già qualcuno iniziava a dimenticarsene, a gettare i costumi di tendenza che aveva indossato fino a ieri, nell’armadio, tutto iniziava a correre più in fretta, tutti noi avanzavamo e guardavamo la strada vuota davanti… ma nessuno di noi aveva più teorie, i sogni e gli ideali erano tenuti ben nascosti, nessuno aveva parole per definire quei ’90 che erano alle porte.

Si camminava e basta.

Non si chiedeva.

Non si pensava.

 

“Non andare, Gab!”

“Lasciami in pace, Pit!”

“Gabriel…”

“Ti ho detto di stare zitto!”

 

Riesco ancora a sentire il sordo rumore della porta sbattuta con violenza. Riesco ancora a percepire la sua angoscia, il senso di dovere che stava diventando ossessione, il terrore di fallire.

Il lavoro ci stava uccidendo.

Vivevamo in una ricca casa nel quartiere di Montmartre, avevamo di tutto… condividevamo lo stesso letto, ma non avevamo né forze, né tempo per l’amore.

L’amore? Quale amore poi?

Non l’avevamo condiviso prima, ora… era del tutto impossibile.

Simón ci aveva costruito una reggia d’oro intorno a noi, ma non ci aveva concesso di toccarla, questo non rientrava nei patti.

Era stato abile in tutto, ed ora non potevamo far altro che seguire la strada che magistralmente aveva tracciato per noi, e fare le cose che, con i suoi muti sorrisi, ci aveva ordinato.

Altro, al di fuori di questo, non ci era consentito.

 

Me ne andai a letto, silenziosamente, stanco e abbattuto come un cane… una sera che potevo riposarmi… invece no, i sensi di colpa mi tormentavano… avrei potuto accompagnarlo al lavoro, guardarlo ballare, infondergli un po’ di sicurezza, un po’ di coraggio, invece, l’unica cosa che ero stato capace di fare era di guardare quella fottutissima porta chiudersi e lasciarlo così… solo.

Mi sentivo un vigliacco, ma non avevo più forze per pensare… e a cosa sarebbe servito poi? Tra me e Gabriel ormai non c’era più nulla, o forse non c’era mai stato nulla, eravamo solo due colleghi in perfetta sintonia lavorativa, una coppia formidabile, rasenti la leggenda, ci capivamo bene solo sopra quei tavoli, solo sotto i riflettori, mentre poi, a casa, bastava un niente per farci litigare e per farci allontanare ancora di più… un nuovo frammento di distanza ogni sera.
Dove eravamo finiti noi due? Quei diavoli che si amavano clandestinamente in stanze d’albergo?

Dov’era finito il furore di un tempo?

Come toccai il cuscino chiusi gli occhi e mi addormentai pesantemente.

Fui svegliato nel mezzo della notte, lanciai un’occhiata sonnacchiosa alla sveglia e vidi che le lancette segnavano le quattro.

Dei strani rumori, provenienti dalla cucina mi distrassero nuovamente… mi alzai dal letto, e preso un bastone che tenevamo accanto all’armadio, mi diressi lentamente verso il salotto.

Sentii delle pentole cadere a terra con frastuono, e a seguire il silenzio… poi… dei singhiozzi… poi… nuovamente silenzio…

Singhiozzi…

“Gabriel!”

Lasciai all’istante il bastone e mi precipitai in cucina, convinto di trovare un’orribile spettacolo dinanzi ai miei occhi, ma per fortuna, le mie paure non ebbero la conferma.

Si, Gabriel era lì, seduto a terra in un angolino, ma grazie a Dio, non aveva fatto stronzate, né tentato nessun suicidio, come spesso aveva minacciato… tutti i coltelli erano al loro posto… soltanto le pentole erano a terra… doveva essere caduto, ed essersi aggrappato a qualcosa.

“Gabriel, Gabriel che succede?” gridai, precipitandomi da lui.

Ma non appena sentì le mie braccia afferrarlo, si ritrasse come un bambino spaurito nell’angolo del muro.

“Sono io… Pit… mi senti? Riesci a sentirmi?”

Continuai a parlargli, cercando, con le carezze, di calmare i suoi tremori… e dopo poco lo vidi appoggiare la testa contro la parete e, respirando a fatica, riaprì lentamente i grandi occhi azzurri.

Mi guardò per un lungo istante, come se stentasse a riconoscermi, o come se stesse aspettando una parola o una domanda da parte mia.

Poi… quell’immenso mare divenne lucido di lacrime, e senza dire nulla, senza smettere di guardarmi, iniziò a piangere sommessamente, silenziosamente, lasciando scorrere quei rivoli caldi senza tregua, come se li avesse trattenuti per anni.

Quel pianto divenne singhiozzo… sentii il forte impulso di stringerlo fra le braccia, ma mi trattenei, il suo sguardo di ghiaccio continuava a bloccarmi, a mantenere una larga distanza fra noi… eppure quello stesso sguardo mi parlava, dicendomi cose che non mi aveva mai detto, ed io sentii il mio cuore aumentare i suoi battiti, lo sentii rispondere a quella voce silenziosa che proveniva dai suoi occhi.

“Ho fallito, Pit!” disse d’un tratto.

Lo guardai senza fiatare.

“Non sono salito su quel tavolo…” rise nervosamente “Ho visto ancora il suo volto… mi voleva perfetto, mi voleva…”

Mi gettai su di lui e lo strinsi con forza contro di me. Non fece opposizione, non mi cacciò. Sentii nuovamente le sue lacrime scorrermi lungo il collo… gli carezzai la testa come mai avevo fatto prima.

“Ho fallito…” continuava a ripetere.

Mi abbracciò con violenza, dette dei pugni contro la mia schiena come a voler scacciare quel dolore che per giorni, mesi e settimane l’aveva tormentato… lo lasciai fare… ne aveva bisogno.

“Io non sono perfetto… non lo sono… sono scappato di lì… fuori fuori nella pioggia…”

“Basta Gabriel…” gli dissi, stringendolo ancora.

“Mi cercherà, mi troverà… sarà la mia fine… la tua fine… io non voglio… io…”

“Gabriel!” gridai afferrandolo per le spalle.

Poi non so come accadde, ma i nostri occhi s’incontrarono, l’uno si specchiò nello sguardo dell’altro, improvvisamente nudi, indifesi, spogliati di tutto quel che eravamo stati fino a quel momento, intravidi le sue labbra muoversi e tremare…

“Ho… fallito…”

Lo baciai. E chiusi quelle parole nella sua bocca.

Lo baciai. E le sue lacrime salate scivolarono nella mia gola riscaldandomi.

Lo baciai. E dimenticai tutto. Quel sapore che avevo atteso da sempre, sognato, sperato, agognato adesso era lì, ad accogliermi. Lo baciai per la prima volta e per la prima volta divenimmo davvero simili… fratelli.

Piansi con lui, accolsi il suo dolore e le sue paure… la strada che avevamo intrapreso insieme e che molte volte ci aveva divisi, era ritornata a correre dritta dinanzi a noi…

Fuori pioveva, pioveva come la prima volta che l’avevo incontrato… tutto si stava ricongiungendo attorno, come un perfetto serpente che si morde la coda.

“Andiamo a letto, ora, Gabriel…” gli sussurrai, quando mi staccai dalle sue labbra.

Mi guardò spaesato, come se fosse appena venuto a contatto con qualcosa d’ignoto, ma io lo sfiorai ancora e gli sorrisi dolcemente.

“Andiamo…”

Raggiungemmo la camera, ed accesi la piccola lampada sul mio comodino. L’aiutai a spogliarsi, aveva gli abiti zuppi di pioggia… mi spogliai anch’io e c’infilammo sotto alle coperte.

Rimase per un istante immobile, a fissare il soffitto sopra di sé… i lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino, le labbra perfettamente disegnate in un’espressione di attesa, gli occhi aperti pronti ad accogliere nuove immagini.

Sembrava davvero che un angelo fosse sceso dal cielo e avesse deciso di stendersi al mio fianco.

Indugiai a toccarlo… era troppo bello… temevo fosse una visione, e che con il mio tocco sarebbe scomparsa.

Alla fine mi avvicinai a lui, gli passai un braccio sotto alla testa, mentre con l’altro gli cinsi la vita.

Non si ribellò, mi lasciò fare e lentamente si voltò verso di me.

“Non mi merito tutto questo, Peter…”

“Non m’importa, voglio dartelo comunque…”

Mi chinai su di lui e lo baciai nuovamente. Aveva le labbra morbide, era piacevole sfiorarle con la lingua o catturarle tra le mie. L’avevo desiderato così tanto che mi parve di non averne mai abbastanza.

Quando mi staccai da lui, lo guardai profondamente. Dovevo saperlo. Dovevo sapere cos’è che era cambiato fra di noi.

“Perché me lo lasci fare, Gab?”

Abbassò gli occhi.

“Forse… perché… non sono la tua puttana…”

“No, Gabriel, non lo sei mai stato…”

Rialzò lo sguardo su di me… lo vidi nuovamente umido di lacrime, ma non erano lacrime di paura.

“Grazie.” mormorò.

Sentii quasi mancarmi l’aria… non riuscivo a crederci, la sua maschera era stata completamente abbattuta, potevo guardarlo com’era veramente, in tutte le sue debolezze, in tutta la sua più intima bellezza… l’angelo bello e maledetto aveva lasciato il posto a qualcosa di più vero.

Il mito era caduto, ma non me ne importava, perché avevo scoperto l’uomo.

Mi chinai nuovamente su di lui ed iniziai a sfiorargli il collo con piccoli baci… sentii muovere la sua testa e apprezzare quel piacere che gli stavo regalando… lo strinsi a me, per riscaldarlo dal freddo che aveva provato… quello dovuto alla pioggia e quello interiore.

Risalii verso le sue labbra e ci perdemmo di nuovo l’uno nella bocca dell’altro.

Quando potei rivedere i suoi occhi, li scoprii coperti di desiderio… di desiderio e non di lussuria.

“Gabriel…” sussurrai dopo un istante… avevo il cuore a mille “Non vorresti… fare l’amore con me… stanotte?”

Attesi con ansia la sua risposta. Temevo che sarebbe finito tutto lì. Temevo di essermi spinto troppo oltre.

Ma lui sorrise e quel sorriso mi riscaldò.

“Si, Pit…”

Lo guardai con gli occhi sgranati, sorrisi a mia volta, risi, mi morsi le labbra, lo baciai ancora, e da quel bacio, durante le prime luci dell’alba, iniziò tutto.

Mi spinse dolcemente sul letto, e prese a sfiorarmi con le dita ogni parte del mio corpo… chiudevo gli occhi ad ogni suo tocco… ad ogni suo passaggio…

Scese lentamente verso il ventre, mi carezzò quel tanto da provocarmi un brivido sottile, risalì verso l’alto, si soffermò su entrambi i miei capezzoli, stuzzicandoli fino a farli diventare turgidi e rossi.

Lo sentii sospirare ad ogni mio gemito… era il suo modo per rispondermi…

Raggiunse il mio collo, lo sfiorò e lo sfiorò ancora, poi le mie labbra, le dischiuse con il pollice per poi lasciare che la sua bocca ne prendesse il possesso.

In quegli istanti ripensai a tutto quello che avevo fatto per lui… ripensai alla mia casa a White Chapel, agli attimi di follia in cui mi toccavo di notte, a mio padre e a mia madre, ad Harry e al suo sguardo sconvolto, quando gli avevo chiesto per la prima volta di lui… di quella strana, splendida creatura notturna, che mi aveva offerto il suo corpo e che me lo stava ancora offrendo, ma stavolta… per amarmi.

Sentii le sue carezze farsi più audaci, ripensai al passato e non provai più rancori, sentii le sue dita raggiungere il mio sesso e dimenticai la mia povertà, la mancanza di sogni che soffoca un ragazzino di periferia, lo strinse e ricordai che lui mi stava dando la vita… iniziò a muovere la sua mano lentamente, mi strappò diversi lamenti, il suo gesto divenne ritmo, la mia voce divenne musica ed iniziammo così a danzare… la nostra danza… il nostro battito.

D’un tratto si fermò, rimase a guardarmi per qualche istante, mi sfiorò il volto e le palpebre fino a farmi riaprire gli occhi.

“Non l’ho mai fatto con un uomo…”

Lo fissai ansimante, il suo sguardo era limpido, mi stava chiedendo una risposta, un aiuto.

“Non aver paura…” gli sussurrai, e lentamente l’aiutai a mettersi sopra di me.

Quando i nostri corpi entrarono in contatto chiuse gli occhi come se avesse sentito la pelle bruciare, come se avesse sentito troppo, assolutamente troppo.

Ma non si spostò. Iniziò a muoversi contro di me, sorreggendosi sulle braccia, come un esperto amante.

Era bellissimo guardarlo… i capelli scomposti che ricadevano sul mio petto, le sue labbra dischiuse che faticavano sempre di più ad accogliere respiri e i suoi occhi, che da quando si erano riaperti, non avevano mai smesso di fissarmi.

“Ti farò male…” mormorò, allargandomi le gambe titubante.

“Non aver paura…” ripetei, come se nessun dolore avrebbe mai potuto soffocare un desiderio tanto forte.

Si chinò su di me, passando le braccia sotto alla mia schiena… mi strinse intensamente, appoggiò il mento nell’incavo del mio collo, ed io sollevai le gambe più che potei, intrecciandole dietro di lui.

Restammo così per un istante, a guardarci come se ci vedessimo per la prima volta, e forse, dopotutto, era vero…

I nostri respiri occupavano la stanza, mescolandosi al rumore della pioggia che batteva contro i vetri, il suo sesso aveva iniziato a spingere appena nel mio corpo, il quale, ormai delirante, si protendeva verso di lui.

“Non ho mai amato nessuno, Pit…”

Spalancai gli occhi.

“Non fino a questo punto…”

Si spinse dentro di me. Entrambi gridammo, per un attimo, i nostri volti si trasformarono in una maschera di dolore.

Sentii le sue unghie conficcarsi nella mia schiena, esattamente come fecero le mie.

La nostra verginità fu perduta in un istante.

Rimanemmo immobili, serrati l’uno all’altro, a zittire quella fitta bruciante, sentimmo distintamente i nostri corpi uniti in qualcosa di unico, d’indelebile.

Il suo sangue e il mio sangue si stavano fondendo in un unico corpo, in un’unica persona… sentimmo quel liquido rosso scivolare tra le nostre gambe e finire sulle lenzuola, puntellandole del suo colore.

Quando la paura e la sorpresa svanirono, e quando il dolore cessò, Gabriel ricominciò a muoversi dentro di me, prima lentamente, poi più velocemente, quasi disperato.

Capii perfettamente la sua disperazione. Io avevo amato, io avevo già donato me stesso, mentre lui… lui era stato sempre e solo usato, tutti l’avevano guardato e nessuno l’aveva mai visto veramente.

Lui era intatto come un angelo, puro, come una creatura che non appartiene a questo mondo, si era preservato per qualcosa a cui aveva smesso di credere, ed ora… stava donando tutto questo a me, liberandosi, in qualcosa a lui sconosciuto, correndo per una strada, dalla quale non sarebbe mai più tornato indietro.

“Peter…”

Mi chiamò, mi chiamò in continuazione durante quell’amplesso, come per accertarsi che io fossi lì, che non lo stessi lasciando solo.

Soltanto quando sentiva le mie mani appoggiarsi sul suo volto, e prendergli la testa, affinché mi guardasse, allora si tranquillizzava e godeva pienamente del piacere che lo stava invadendo.

Sentii le sue spinte aumentare d’intensità, lo sentii afferrarmi le gambe e portarle fino al mio petto… aveva bisogno di spazi, aveva bisogno di libertà… lasciai che facesse tutto ciò che desiderava… iniziai a chiamarlo, ad incitarlo, a gemere più forte affinché il suo delirio divenisse completo.

Lui mi rispose… divenimmo una cosa sola… strinse forte le mani attorno alle mie cosce, mi penetrò una e più volte, ma senza violenza, senza possedermi… le nostre grida si confusero… i nostri sospiri divennero tutto… la pioggia iniziò a scrosciare e a schiaffeggiare i vetri… i nostri occhi s’incontrarono… e finalmente, io trovai me stesso. Definitivamente.

Esplose.

M’invase.

Mi riscaldò.

Mi diede tutto.

E compresi che il suo era un addio.

 

Mi aveva dato la sua vita. Voleva che io fossi il testimone di essa. Regalandola a me, sapeva bene che non sarebbe andata perduta.

“Ti amo, Peter…” mi disse, prima di addormentarsi.

Si addormentò dentro di me.

E quella notte i nostri corpi fuggirono via, lontani da un mondo divenuto troppo rude e indifferente… un mondo che non credeva più ai miracoli, un mondo che non voleva più incontrare gli angeli.

Rimasero soltanto le nostre anime, bagnate dalla pioggia, a vagare per i vicoli di Parigi.

Avevamo rotto con ciò che ci faceva del male, avevamo spezzato i legami con tutto ciò che ci aveva un tempo ucciso.

Eravamo insieme, per sempre.

Ma sapevo anche che le prime luci della notte successiva me lo avrebbero portato via.

 

Così fu…

Anche la sera dopo pioveva, una pioggerellina fina, senza senso.

Gabriel era in camera. Si stava vestendo.

Io ero in cucina, a muovere meccanicamente il cucchiaio nella mia fumante tazza di tè.

Lo vidi uscire dalla nostra stanza con il suo abito migliore.

“Vado a lavorare…” disse, accendendosi una sigaretta.

“Lo so.”

Non mi guardò neppure in faccia, non perché non riusciva a farlo, ma perché mi aveva dato tutto la notte precedente. Non c’era bisogno di aggiungere altro.

Ormai ci conoscevamo come se fossimo la stessa persona. Ormai ogni segreto era stato svelato tra di noi.

Io sapevo le sue intenzioni e lui sapeva le mie.

“Torni alla solita ora?”

“Si.”

Quella notte sarebbe stato anche il mio turno. Ma non andai. Avevo già preso la mia decisione.

 

Gabriel non tornò alla solita ora, né tornò il mattino successivo. Non tornò mai più.

Sorseggiai il mio tè ed andai a dormire.

Non mi avrebbe mai seguito negli Stati Uniti, non avrei mai preteso che lo facesse… quel mondo vuoto e troppo rapido che non riusciva a comprendere… la sua vita era la danza, la sua esistenza era vivere di quei balli che duravano fino al mattino… lui era l’angelo della notte, lo era sempre stato, e avrebbe di gran lunga preferito rimanere il protagonista di qualche locale notturno, anziché tentare la fortuna in qualcosa a lui ignoto, seppure con me accanto.

Danzare era l’unico linguaggio che conosceva, l’unico suo modo di amare… era il suo sogno, il suo ideale… ci aveva creduto, aveva creduto di rivoluzionare le cose con il furore del corpo, come del resto, molti di coloro che avevano vissuto la giovinezza nei gloriosi anni ’70.

Io invece ero sempre più convinto che la vera rivoluzione sarebbe stata una rivoluzione di gesti, di parole e di mente.

Quel mondo non faceva per me. Ma non avrei mai strappato il mio compagno (ora lo chiamavo così) alla sua notte.

Lui sarebbe rimasto lì, tra i suoi fumi e le sue danze, esattamente come l’avevo conosciuto, sarebbe stato lo spettacolo per molti, mentre nel cuore avrebbe conservato il ricordo di me, e dell’ultima notte trascorsa insieme, la prima e vera unica notte, quando lo ebbi e quando lo perdetti.

 

Io e Gabriel ci eravamo scambiati le nostre anime, e da quel momento uno, avrebbe sempre percepito vicina la presenza dell’altro.

Fu questo che pensai il giorno seguente, quando decollai dall’aeroporto di Parigi.

Lui quella mattina non era tornato per lasciarmi andar via in silenzio, per non guastare nulla, e per lasciare incontaminato il letto che due notti prima avevamo condiviso.

Esso sarebbe rimasto lì, con le lenzuola sfatte, come quando ci eravamo addormentati. E anch’io, in fondo, ero rimasto lì, come quando lo avevo tenuto stretto tra le braccia fino al mattino.

Pensai a lui e guardai il cielo, lasciando la capitale francese sotto ai miei piedi.

Sorrisi.

“Ti amo, Gabriel.”

Non più Angelo Caduto, né Giglio della Notte, ma ormai solo e semplicemente Gabriel., il mio Gabriel.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bonus track: “sing”

 

Sono appena arrivato a Londra. Sono passati dieci anni dall’ultima volta che ho messo piede su queste strade.

Quante cose sono cambiate… Londra non si smentisce mai… a Londra le cose mutano in fretta.

La gente lo pensa ancora.

L’unica cosa diversa è che le vecchie generazioni si sconvolgono sempre meno davanti al nuovo che avanza, mentre i giovani quasi non se ne accorgono più!

Siamo già nel 1995! Ho trent’anni anni adesso!

I vecchi anni ’70 ora sono ricordati dal profumo di qualche buona canna, che puoi comprare a buon prezzo dietro l’angolo, mentre gli anni ’80 sfuggono dalle note di uno stereo lasciato acceso in una macchina qui intorno, da qualche parte.

Sono riuscito a fare il biglietto all’ultimo minuto, i posti in aereo erano praticamente tutti occupati, ma non volevo restare a New York, volevo regalare qualcosa di speciale al mio compagno per questa giornata.

Oggi è il suo compleanno.

Compie venticinque anni. Ci siamo conosciuti a teatro, lavoravamo per lo stesso spettacolo, lui come attore e io come ballerino.

Si, lavoro a teatro adesso. Quando arrivai a New York dieci anni fa, continuai a danzare in qualche locale per un po’ di tempo, poi, una sera, mi notò un giovane signore, faceva il coreografo e gli piacque il mio modo di muovermi… diceva che con il corpo riuscivo ad esprimere una gamma infinita di emozioni.

Mi prese a lavorare per il suo show e giorno dopo giorno sono entrato a far parte di questo magico mondo di maschere.

Johnny è rimasto molto affascinato da Londra. Per un americano, venire in Europa è senz’altro un’esperienza costruttiva! Ci prendiamo spesso in giro… lui imita il mio accento inglese, rendendolo ancora più snob di quel che è normalmente, mentre io… mi limito a riempire la sua testolina di un po’ della cultura del caro vecchio continente.

Ci amiamo molto. Lui sa tutto del mio passato, gli ho parlato di Gabriel… e ogni volta che gliene parlo mi sorride… dice che quando lo nomino, gli occhi mi diventano più belli… non è geloso.

 

E’ stato bello rivedere Londra. Sono tornato in ogni strada, in ogni posto, in ogni quartiere.

Sono tornato anche a White Chapel, ma i miei genitori non vivono più lì, abitano da mia sorella, che, evidentemente colta da uno strano moto di generosità, li ha accolti in una piccola dependance di casa sua.

Sono felice che stiano bene, anche se quando gli ho telefonato dicendo che tornavo a Londra hanno preferito non vedermi. Chissà quale mostro temevano d’incontrare!

Pazienza. Questa è la vita. E nella vita l’essenziale è non avere rimpianti, né serbare rancori.

Ed io posso dire che nonostante tutto… non ho nessun rimpianto.

 

Sono tornato anche nella vecchia strada della libertà, la famosa via dei locali a luci rosse… sono tornato al Doll’s House che oggi non esiste più. Ora al posto di tutti quelli che un tempo erano i luoghi di ritrovo della maggior parte della popolazione londinese maschile, vi sono una serie di pub, wine bar e pizzerie.

Ci si può camminare di giorno, ci si può andare a fare colazione con la famiglia e i bambini.

Soltanto di notte, se chiudi le orecchie ai nuovi rumori che provengono da ogni angolo di quella strada, puoi ancora sentire le dolcissime voci delle ragazze che invitano ad entrare in quei paradisi dei sensi… l’asfalto, sebbene sia stato calpestato da mille suole, porta ancora con sé le vibrazioni di quelle sere, oppure forse sono io ad essere pazzo e ricordarmi quei profumi dopo così tanto tempo… un nostalgico bastardo ecco cosa sono!

Ma cosa ci posso fare… in fondo in quelle strade c’è una parte di me… è stato laggiù dove ho iniziato a vivere, è stato lì che conosciuto il fuoco e l’amore… ore di attesa fuori dal Doll’s solo per vederlo ballare, solo per vederlo salire sul quel tavolo e gettargli ai piedi un altro pezzettino della mia innocenza… attimi di adrenalina, con la stanchezza in corpo per le ore di lavoro e i sacrifici che avevo fatto, per la paura di perdere ogni cosa in un solo istante, per la paura di sbagliare, per la paura di conoscere fino in fondo la libertà.

Ancora mi ricordo quella sera, quando mi venne a raccogliere sotto la pioggia, avvolto nel suo cappotto di pelle nera, quella sera in cui per la prima volta conobbi i sussulti dell’amore e la droga dei sensi… e poi ancora… la rabbia, l’odio, gli insulti, noi, come due animali che si cercavano, si fiutavano, si aggredivano per poi amarsi nuovamente.

Si, Gabriel… queste strade sanno di te.

Hai lasciato la tua impronta, sebbene nessuno di questi ragazzi ti ricordi… tutti bravi ragazzi fuori dai college per l’uscita del sabato… ma che cosa eravamo io e te… che cosa erano quei tempi e quel furore, soltanto noi lo sappiamo.

Nessun  rimpianto, Gabriel, nessun rimorso… ed ora che stringo tra le braccia il mio compagno e lui mi asciuga le lacrime mentre guardo queste strade (perché, cazzo si, un po’ di nostalgia di te la provo ancora!), sento che è giunto il momento di salutare quella che è stata la mia giovinezza, saluto Peter che se ne sta ancora là dinanzi al suo locale ad aspettarne trepidante l’apertura, e mi avvio verso la mia camera d’albergo con il sorriso sulle labbra , il cuore ricco e pieno, mentre la pioggia m’inzuppa i capelli e la notte col suo battito m’invade, quel battito che mi pulsa forte nelle vene… quel battito di vita di cui non ho più paura.

 

***

 

Music by: Eurithmycs; Iggy Pop; Gazebo; Lou Reed; Pink Floyd; Patty Smith; Pulp Fiction Soundtrack; Police; Boy George; Queen; Dire Straits; George Micheal; Blur.

 

 

 


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