PARTE: 7/9
RATING: NC-17
PAIRING: GregoryxRaphael
DISCLAIMERS: I personaggi sono miei e mi obbediscono (quasi) sempre!!!

Gregory
di Fiorediloto


CAPITOLO VII: "Rega, il mezzo-gitano"

Per due giorni non li disturbarono, limitandosi a portar loro i pasti: evidentemente Ganelon aveva trovato degli amanti più soddisfacenti di loro.
Grazie alle cure di Raphael, Gregory si riprendeva velocemente, dalle ferite del corpo e da quelle dell’anima. Aveva perso quell’aria stralunata e persa che faceva dubitare Raphael della sua lucidità, era in grado di fare discorsi sensati e di pensare al futuro. Non aveva più pianto. Solo il dolore ristagnava come una goccia nera in fondo al pozzo dei suoi occhi.
Fu alla sera del secondo giorno, il terzo di prigionia, che accadde qualcosa.
– Gregory – mormorò Raphael, fermo alla finestra.
– Che c’è?
– Li stanno attaccando. I predoni. Sono attaccati.
Gregory si tirò in piedi, con cautela, e lo raggiunse alla finestra. – Dio mio – sussurrò, appoggiando le mani contro il vetro.
– Non ci libereranno, vero? – chiese Raphael, desolato. – Sarà lo stesso anche con questi…
– Non hai visto? Sono gitani – mormorò Gregory.
Raphael guardò meglio. Scorse il luccichio degli orecchini e impallidì. – Siamo finiti – alitò, appannando il vetro. – Siamo finiti. Ci faranno a pezzi… ci venderanno come schiavi…
– No! – esclamò Gregory, con un entusiasmo che Raphael aveva temuto di non vedergli mai più in viso. – No! Non capisci? Sono gitani! Gitani! Dio santo, ma allora esisti! Esisti! – E si gettò a terra e cominciò a pregare, alternando devozioni e risate e lacrime di gioia.
Con orrore, Raphael si disse che era impazzito.

I predoni combattevano per la vita, e questo dava loro una forza non indifferente, ma erano perlopiù tagliagole da quattro soldi. I gitani, invece, erano combattenti ben addestrati, armati di tutto punto, ed erano molto più numerosi. Inoltre avevano dalla loro la sorpresa, e la paura che la loro fama di guerrieri terribili incuteva su qualunque nemico.
La battaglia fu breve e sanguinosa. Alla fine, dei predoni non rimasero che corpi sventrati, spogliati dei loro averi e lasciati impietosamente a terra.
Passò un po’ di tempo, tempo nel quale Raphael si aggirò per la stanza come una belva in gabbia, mentre Gregory riprese a pregare con rinnovato vigore. Poi la porta della camera in cui erano rinchiusi si aprì di colpo.
Comparve di fronte a loro un guerriero gitano, barbuto e dall’aria forte, dall’aspetto tutto sommato rassicurante, rispetto a ciò che si erano aspettati. Non sembrava assetato di sangue, e non li guardò come se progettasse di passarli subito da parte a parte con la spada. Portava l’orecchino al lobo sinistro.
Malek – disse Gregory, istintivamente. – Malek, devinon.
L’uomo lo guardò. – Come conosci la lingua del vento, ragazzo?
Avevo ragione, pensò Gregory, con il cuore in tumulto. È un gitano! – Giura su Rabe, il padre degli dèi, che non alzerai un dito su di noi e te lo dirò.
– E sia. E adesso dimmi chi sei, tu che parli come un figlio del vento e indossi un abito da servo cristiano. Avvicinati. – Gettò uno sguardo a Raph, distrattamente. – Anche tu.
Gregory avanzò lentamente. – Parlo la lingua che mi è stata insegnata da mia madre, la ziina Fedria. Quanto al mio abito, esso rappresenta ciò che sono: un novizio. Questa parola ti dice niente, devinon?
– Sei uno spudorato e un bugiardo – ringhiò il soldato, cancellando di colpo ogni benevolenza dalla voce. – Un figlio del vento non accetterebbe mai le catene dei cristiani! Tu menti!
Gregory scosse la testa. Scostò i riccioli dall’orecchio sinistro, scoprendo il lobo forato. – Questa è la prova che dico la verità. Vedi il buco?
– Non vedo l’orecchino, però – replicò l’uomo, sospettoso.
– Tra i cristiani non lo porto. Vuoi spogliarmi per vedere se ho il tatuaggio? Se vuoi farlo, fallo – dichiarò Gregory, con fierezza.
Il soldato lo guardò con il sospetto e il dubbio negli occhi. – Il buco puoi essertelo fatto da solo. Spogliati tu stesso e mostrami il tatuaggio di tuo padre; allora ti crederò.
– Come preferisci – disse Gregory. – Sfilò un braccio fuori dalla manica, poi l’altro, infine ripiegò la parte superiore del saio sulla cintola. Il tatuaggio che portava appena sopra l’ombelico, un simbolo arcano diverso da quello inciso sul medaglione di Raphael, era del colore dell’inchiostro, vividissimo. – Ti basta?
Il soldato sussurrò una parola: – Kirin –, e poi fece un sorriso tutto storto. – Malek, devinon. La prudenza non è mai troppa. E adesso, sempre per seguire questo suggerimento, dimmi perché un figlio del vento dovrebbe portare abiti da novizio.
– Ho già risposto a questa domanda. Sono un novizio. E come hai potuto vedere, sono anche un figlio del vento. Credo nel mio sangue, ma anche nel Dio cristiano, e li venero entrambi con tutto il cuore. – Deglutì, adesso veniva la parte più difficile. – Siamo stati presi prigionieri da Ganelon, il capo dei predoni.
L’uomo posò la mano sull’elsa dello spadone ricurvo, con un gesto noncurante. – Qual è il tuo monastero, allora, devinon? – indagò.
– Si chiama Serven. È a poche ore di cammino da qui. – Gregory si ricoprì lentamente, mentre parlava. Tremava per il freddo, ma anche per la paura che aveva cercato di nascondere parlando con fermezza. Più di ogni altra cosa temeva per Raphael, paventando il momento in cui il soldato si sarebbe rivolto a lui.
– Questo ragazzo chi è? – chiese il gitano, sfoderando un piccolo pugnale da lancio e passandoselo distrattamente da una mano all’altra. – Non veste come un servo dei cristiani.
– È il mio seth-la – disse Gregory, – ed è un Senzapatria. – Si voltò verso Raphael, che era letteralmente paralizzato dall’orrore. – Raph, dammi il tuo medaglione. – Il ragazzo lo guardò per un istante come se non capisse. – Il medaglione – ripeté Gregory, nervosamente. – Ho visto che l’hai messo in tasca prima di partire. Dammelo, avanti.
Finalmente Raphael tuffò una mano nella tasca destra dei calzoni e ne estrasse l’ovale di madreperla contornato d’oro. Si avvicinò a Gregory, senza mai staccare gli occhi dal pugnaletto che volava tra le mani del soldato, e glielo consegnò.
– Questa è la prova – disse Gregory, con voce più ferma. Stese il braccio con il gioiello sul palmo. – Osservalo. – E poi aggiunse, duramente: – Fer du sendaritmon, Rabe swangorger.
Il soldato parve prenderlo sul serio. – Lo riavrai – disse, prendendo il medaglione nella mano. – Sta’ tranquillo. – Abbassò gli occhi, poi li rialzò di scatto. – A chi hai rubato questo sema? – ringhiò, con voce alterata. – Non può appartenerti!
Gregory sentì una mano tremante sfiorargli il palmo sinistro. La strinse con forza, finché non sentì le pulsazioni di entrambi mescolarsi sulle punte delle dita. – Non temere – mormorò in Quith, sapendo che Raphael avrebbe capito. – Non temere di nulla – e poi aggiunse: – fratello – usando la parola che in Quith poteva significare “amico giurato”, “figlio di mio padre”, oppure, nel significato più intimo di tutti, “compagno di vita”. Usò l’inflessione intima, deliberatamente.
Sentì lo sguardo di Raphael carezzargli il viso, la mano del ragazzo stringere la sua con ardore, e per un istante provò il desiderio di approfondire quel contatto, di stargli più vicino, ma non era né il momento né il luogo per simili pensieri. – Non l’ha rubato – disse, con fermezza. – È suo. Gli è stato donato da una ziina.
– Tu stai mentendo – replicò il soldato. – Nessuna ziina donerebbe il proprio sema a un cristiano! Questo, poi…
Gregory si incupì. – Lo farebbe, se riconoscesse in lui un Senzapatria affiliato alla propria famiglia.
Il soldato gettò uno sguardo fuori, poi ripose il pugnale dentro la manica. – Venite con me – disse alla fine. – Tutti e due. E se provate a scappare vi uccido.
L’avrebbe fatto, se fosse stato necessario, anche se ormai doveva essersi convinto dell’identità di Gregory, se pure non di Raphael. In effetti, neppure Gregory era certo di chi fosse il suo compagno. Quella del Senzapatria, un figlio del vento abbandonato tra i cristiani, gli era sembrata l’ipotesi più plausibile, in quei tre mesi che lo conosceva. Ma… la verità? Non potevano conoscerla, se non avessero prima trovato la ziina che gli aveva donato il medaglione. E Gregory conosceva una sola ziina affiliata a quella famiglia.
– Tu sei un gitano – mormorò Raphael, in Quith. La sua voce era vibrante di paura, tesa come una corda di violino. – Perché non me l’hai mai detto?
Gregory non lo guardò. – Non potevo dirtelo. Cosa avresti pensato di me? Continuavi a ripetere quello che ti avevano insegnato su quanto i figli del… i gitani siano malvagi, e immorali, e ladri, e bugiardi…
– E non lo sono?
– No. Non più di tutti gli altri, cristiani compresi. – Scosse la testa. – Sono esseri umani come gli altri.
Raphael abbassò gli occhi. – Siete. Non sono. Siete – mormorò.
Siamo, pensò Gregory, ma non lo disse. – Sei adirato, vero?
– Non lo so. – Raph fece una pausa. – Avrei voluto che me lo dicessi. Non ti sei fidato di me.
– Come potevo? – mormorò Gregory, con dolcezza. – Ti avrei scosso, disgustato, forse mi avresti odiato. Ti saresti rifiutato di frequentarmi e di conoscermi. Io non volevo perderti. Sei la cosa più bella della mia vita.
Raphael mandò un sospiro, non riuscendo del tutto a trattenere il senso di orgoglio suscitato da quell’ultima, accorata confessione. – Adesso lo so – disse piano. – E non smetterò di volerti bene per questo. – Sfoggiò un debole sorriso, venato di paura. – Non parliamone più, d’accordo?
Anche se l’oscurità copriva gran parte dell’orrore di Widefield, il lezzo di morte dei cadaveri insepolti era diventato un tanfo ormai insopportabile. Gregory e Raphael furono costretti a premersi una mano sul naso per non respirare quell’aria ammorbata. Le strade erano adesso ingombre di soldati gitani, tutti riconoscibili per gli abiti colorati e le spade ricurve poste alla cintura, oltre che per gli orecchini scintillanti.
Su Widefield era calato uno strano silenzio nervoso, disturbato da un brusio di sottofondo. La piazza era ancora piena di gente, ma non più mercanti o acquirenti, bensì soldati armati di tutto punto. – Seth-la! – gridò il soldato che li spingeva avanti, e che, adesso Gregory se ne accorgeva, doveva essere un ufficiale. – Seth-la!
Raphael accostò il viso al suo. – Che significa quella parola?
– Fratello – rispose Gregory. – Fratello per giuramento.
– Non capisco.
Gregory strinse i denti. – È un rapporto strettissimo – mormorò. – Se qualcuno tenterà di fare del male a questo soldato, il suo seth-la si getterà sull’aggressore e ne farà brandelli. Senza pietà.
– Prima tu hai detto che…
– Che sei il mio seth-la. Sì. L’ho detto perché quell’uomo sapesse che prima di toccarti dovrà passare sul mio cadavere.
Lo sentì deglutire. – Saresti capace di… di uccidere? – bisbigliò Raphael.
– Ne parliamo dopo. Lasciami sentire.
Il soldato aveva raggiunto un uomo alto e magro, con una lunga chioma biondo cenere e i lineamenti delicati, inaspriti da una smorfia dura, e gli parlava rapidamente nella lingua dei gitani. Quest’ultimo sembrava un capo, a giudicare dagli anelli alla mano destra e l’aria altera, ben diversa dalle grossolane espressioni sul viso dei soldati semplici; guardando i due seth-la affiancati, Gregory pensò che dovevano appartenere alla stessa famiglia, perché avevano in comune il naso diritto e gli occhi grigio-azzurri. Un lampo di riconoscimento gli balenò nella mente, vago, un’immagine infantile ripescata dalle sue memorie d’infanzia. Ma poteva sbagliarsi.
Parlarono per pochi istanti, nei quali il primo soldato riferì all’altro chi aveva trovato e come, poi tirò fuori il medaglione e glielo porse, esclamando in tono concitato: – Lhonde! Lhonde utwos!
– Che ha detto? – bisbigliò Raph.
Gregory, che ormai sudava freddo, gli rispose piano: – “No, non è possibile”. – In realtà il gitano si era espresso molto più volgarmente, ma non aveva voglia di tradurre alla lettera.
Il secondo soldato, quello che sembrava il capo, alzò gli occhi su di loro e li squadrò con freddezza. Poi alzò la mano destra, quella inanellata, e disse in gitano: – Avvicinatevi. Tutti e due.
– Non mentire – bisbigliò Gregory, in un soffio. – Se ti chiedono qualcosa, non mentire. – Poi avanzò e si tirò dietro Raphael, stringendogli la mano con forza.
L’uomo biondo rimase un poco a studiarli entrambi, ma dopo una prima occhiata si disinteressò completamente a lui, mentre invece si attardò ad osservare Raphael con molta attenzione. – Come ti chiami? – chiese alla fine, con una specie di rude cortesia. Aveva una bella voce profonda, da baritono. Il suo viso non dimostrava più di quarant’anni.
– Raphael – rispose il ragazzo, cercando di controllare il tremito nella voce.
L’uomo si incupì. Si voltò verso il seth-la e gli disse, in gitano: – Ha gli occhi di mia madre Kayla. – L’altro gli diede di gomito, accennando a Gregory che li fissava, e replicò: – Attento a quel che dici. Lui ci capisce.
Per la prima volta, l’uomo biondo parve interessarsi veramente a Gregory. – Sei il figlio di Fedria, ragazzo? – gli chiese in gitano. E quando lui annuì, disse una sola parola: – Rega.
Gregory serrò le labbra. – È il mio nome. Come lo conosci?
– Tua madre è morta invocando suo figlio Rega – rispose il biondo, senza espressione.
– Cosa… che stai dicendo? – mormorò Gregory, diventando tutt’a un tratto di un pallore mortale. – Mia madre…
– È morta – ripeté quello, con indifferenza. – Di febbri. Non più tardi di ieri.
– Tu menti! – gridò Gregory, facendo per scagliarsi contro di lui. Due soldati lo afferrarono per le braccia. – Stai mentendo! Cosa ne sai di mia madre? Chi diavolo sei? – Tentò di divincolarsi, mentre lacrime brucianti gli scorrevano sul viso, ma i soldati erano troppo forti per lui. – Mia madre non può essere morta! Mi rifiuto di crederlo! Non…
L’uomo biondo corrugò la fronte. Pareva vagamente divertito. – Infatti non lo è.
– Mia… cosa?
– Tua madre non è morta – disse il soldato. – La ziina Fedria sta benissimo, le ho parlato io stesso fino a pochi istanti fa. Ma adesso sono sicuro che tu sia suo figlio Rega, il mezzo-gitano. Sei impulsivo come lei, devinon.
A un cenno i soldati lo lasciarono, lentamente. Gregory si asciugò il viso. Si sentiva umiliato e preso in giro. Nessuno avrebbe mai dovuto vederlo mentre perdeva il controllo. Era una cosa che detestava con tutto il cuore. – Tu ti sei preso gioco di me – disse con astio. – Non avevi il diritto di farlo.
L’uomo scosse la testa, e con essa la lunga chioma bionda. Fece un sorriso. – Ringraziami, piuttosto, devinon. Adesso puoi star certo che non ti ucciderò.
Gregory serrò i denti. – Chi diamine sei, tu, che conosci mia madre? Io ti ho già visto.
L’altro lo ignorò. Tornò a guardare Raphael e il sorriso scomparì dalle sue labbra, sostituito da un’espressione molto seria. – Sai cos’è questo? – chiese al ragazzo, sollevando il suo medaglione.
– Non lo so – rispose Raphael, con voce nervosa. – Un simbolo, credo.
– Questo è un sema.
Il ragazzo scosse la testa. – Non ne so nulla.
– Questo dimostra la tua appartenenza a una famiglia. Una delle nostre famiglie – sottolineò il soldato. – Chi sono i tuoi genitori?
– Non lo so. Sono morti.
– Morti. – Il soldato studiò ancora una volta il medaglione, poi alzò gli occhi. – Adesso ti farò delle altre domande. Ti avverto: se mentirai, ti ucciderò – disse, lentamente. – Hai capito?
Raphael deglutì. – Sì.
– Come hai avuto questo?
– Mi è stato donato da una gitana – rispose. – Mi ha abbracciato e baciato, e poi mi ha dato questo.
L’uomo inspirò. – Bella?
– Cosa?
– Era bella? Che età aveva?
Raphael ci pensò su un attimo. – Trent’anni, credo. Sì, era bella.
– Ti ha detto il suo nome?
– No.
Il soldato annuì tra sé, pensoso. – Sai cosa c’è scritto qui sopra?
Gli occhi di Raphael andarono a Gregory, sulla scia di qualche pensiero, poi tornarono sull’uomo biondo. – No – rispose. – Non conosco la vostra lingua. Pensavo fosse un disegno, o qualcosa del genere.
– Adesso menti – disse il soldato, accigliandosi. – Il tuo seth-la è un gitano. Ti avrà rivelato il significato di questo sema.
Raphael scosse la testa, più volte. – Io non sapevo che Gregory fosse un gitano. Ci conosciamo solo da… da qualche mese.
– Abbastanza per pronunciare il giuramento e non per sapere a chi leghi la tua vita? – replicò il soldato. – Non mentire, ragazzo, di’ la verità e non ti accadrà nulla.
– No – ripeté Raphael, con ostinazione, benché il suo colorito fosse ormai terreo. – È la verità, lo giuro sulla Croce. Voi dovete credermi.
Il biondo fece una smorfia. – I cristiani mentono anche quando impegnano la parola in nome del proprio Dio.
– Ma io no – insistette il ragazzo, angosciato. Trasse fuori la Croce da sotto gli abiti. – No, ve lo giuro. Ho passato tutta la vita in monastero, tra i servi di Dio. Non lo farei mai!
– Io stesso ho udito i tuoi “servi di Dio” spiegare ai buoni cristiani che la parola data a un gitano non ha valore, perché la nostra stirpe è maledetta.
Raphael scosse la testa. – Perché non vi fidate di me? Non mi conoscete neanche. Volete uccidermi ad ogni costo, anche se non vi ho fatto nulla? – Indicò il medaglione nella mano del soldato. – A quale famiglia appartiene? Ditemelo, lo voglio sapere.
Gregory guardò il ragazzo con animo pieno di rispetto. Non avrebbe mai pensato che potesse mostrare tanto coraggio, specie di fronte a un esercito di persone che gli avevano sempre descritto come perverse e sanguinarie, e che adesso tenevano in mano la sua vita.
– Te lo dirò io – scandì una voce di donna, chiara e vibrante come un’arpa, melodiosa. Gregory faticò a vederla, nascosta com’era dai soldati, tuttavia la ziina non tardò a farsi strada. – Ti dirò io a quale famiglia appartiene.
Era una bella donna castana, non molto alta, snella e dal viso affilato. Dimostrava non più di trent’anni. Gregory la riconobbe all’istante. – Lljenae – sussurrò tra i denti. – Dunque, il soldato biondo…
– Katrina, hai lasciato i feriti per venire? – mormorò questi, con ferma gentilezza.
– Non preoccuparti – rispose Katrina, scrollando i lunghi capelli protetti sul capo da una bandana verde chiaro rifinita di perline. – Li ho lasciati in buone mani. Fedria si occupa di loro. – Rivolse a Raphael un bel sorriso. – Allora, ti ricordi di me, figlio? – Prese il medaglione dalle mani del biondo. – È una gioia sapere che l’hai conservato.
Raphael deglutì, più volte. – È lei – disse alla fine, rivolto a nessuno in particolare. – La donna del medaglione. È lei.
– Katrina? – Il soldato biondo guardò la piccola donna come se non potesse crederlo. – Hai dato il tuo sema a un fanciullo cristiano? Quando è successo?
Il sorriso di lei si allargò. – Non un fanciullo qualsiasi. Suvvia, Neekla, hai gli occhi incrostati di lordura? Guardalo! Che diamine, non scorgi niente? – Scosse la testa, poi si avvicinò a Raphael e gli posò il sema sulla mano, chiudendo le sue dita sul simbolo arcano. – La famiglia che porta questo sema è la mia. La famiglia dei ’ra Jethra.
Raphael guardò il medaglione, poi Katrina. – Io? Io sono tuo figlio? – sussurrò.
La donna gli prese il volto tra le mani e lo baciò su una guancia, poi sull’altra, poi sulle labbra. Sorrise mentre Raphael avvampava d’imbarazzo. – Sì – rispose, con calma.
Difficile dire chi fosse il più scioccato, se Gregory, o Raphael stesso, o il capo dei soldati Neekla. Tuttavia quest’ultimo, già pallido, aveva assunto una tinta gesso vagamente cadaverica. Quando il suo seth-la lo abbracciò, sembrò in procinto di crollare, sopraffatto da un’emozione che soltanto lui conosceva.
– Io… padre – Gregory lo sentì mormorare. – Dopo quindici anni, non credevo più che… Per il sangue di Rabe, Katrina, da quanto tempo lo sai? – esclamò. – Perché non mi hai detto di averlo trovato?
La donna rise, scrollando la testa in modo incantevole. – Oh, figlio mio, dimenticavo – disse, prendendo la mano di Raphael. – Quest’uomo molto sciocco, che a quanto mi è parso di capire ti ha tormentato a lungo per via del tuo sema, è il mio compagno Neekla. Tuo padre – aggiunse dopo un secondo. Prese la mano del guerriero e la unì a quella del figlio di entrambi. Poi fece un passo indietro, contemplando la scena.
Raphael non alzò gli occhi sul genitore. – Questo… questo fa di me un gitano? – mormorò, rivolgendosi alla madre. – Come voi?
– Sì. È un problema, figlio mio?
– Io… io devo pensarci. – Raphael ritirò la mano. – Ci insegnano cose orribili su… su quello che fate. Voi non lo sapete. Ci devo pensare, prima di…
Neekla si inginocchiò di fronte al ragazzo, posandogli le mani sulle spalle. Anche così, il suo viso era alla stessa altezza di quello di Raphael. – Io lo so – disse piano. – So cosa ti hanno insegnato. Però tu mi devi credere, quando ti dico che neanche la metà di quelle cose è vera.
– Tu non mi hai aiutato in questo senso – replicò Raphael, freddamente. – Se non ricordo male, volevi uccidermi, padre. – Scosse la testa. – Se davvero sei mio padre, ti devo la vita una volta, e una seconda per avermi liberato dai predoni. Per questo ti ringrazio. Ma devo pensarci. – E così dicendo si allontanò rigidamente, in direzione della locanda presso cui avevano sostato quella mattina.
Gregory sospirò. – Ha solo bisogno di un po’ di tempo – disse al guerriero, costringendosi a levigare una certa naturale asprezza che sentiva nei suoi confronti. – Lo conosco. Ti accetterà.
Ma Neekla scosse la testa. – Quel ragazzo ha ragione. Sono stato troppo diffidente con lui, quando non lo meritava.
– Comunque sia, io sono felice – interloquì Katrina, con lo stesso, immutato sorriso. – Ho ritrovato mio figlio, e per tutti gli dèi, ho voglia di festeggiare! Rega, ti prego, va’ a parlargli. Sono sicura che saprai aiutarlo. E poi digli che festeggeremo in onore suo e della vittoria.
– Possibilmente non in quest’ordine! – scherzò qualcuno, ma la piccola donna lo fulminò con lo sguardo. – Digli così, Rega – scandì. – E poi… oh, ma che sciocca che sono! Tua madre è di là, con i feriti, sarà felice di vederti. Se vuoi andare prima da lei…
Non fece neppure in tempo a dirlo che Gregory era già corso via. Sua madre! Non la vedeva da un anno intero, e gli sembrava un’eternità. L’avrebbe trovato diverso? E suo padre Julian? Era lì con lei? Non vedeva l’ora di vederla e tempestarla di domande.
Chiese a un soldato dove avessero raccolto i feriti e scoprì che avevano occupato il vecchio magazzino abbandonato. Vi si recò. Le porte erano spalancate, una divelta dai cardini, e lasciavano filtrare fuori una luce fioca di lampade a olio.
Dentro erano stati arrangiati una ventina di giacigli di fortuna, non molto distanti l’uno dall’altro. Due o tre guaritori passavano rapidamente da un ferito all’altro.
Gregory la vide subito, a pochi passi dall’entrata: e malgrado la stanchezza che le segnava il viso, la trovò bellissima come sempre.
La ziina Fedria era una splendida donna di trentasei anni, non molto alta, bruna come Gregory e con la stessa matassa di riccioli ribelli che le ricadevano sulle spalle, arrivando quasi a sfiorare le natiche tornite. Il seno, protetto da un’armatura di cuoio leggero che lasciava spazio ad una comoda scollatura, era quello generoso e morbido di una donna che aveva allattato, ma il ventre era piatto e privo di grasso, così come tutto il resto del corpo. Il viso, in assoluto la sua parte più bella, sottraeva almeno cinque anni alla sua età, soprattutto grazie agli occhi nerissimi e fondi come pozzi di catrame, che luccicavano di una vitalità assolutamente giovanile.
– Madre! – Gregory corse ad abbracciarla. Era molto più alto di lei, e per questo fece per chinarsi sul suo viso, ma poi ci ripensò, si inginocchiò e la sollevò in braccio, baciandole felice una guancia, poi l’altra, poi le labbra. Fedria scoppiò a ridere, sgambettando nel vuoto e gridando allegra: – Rega! Lasciami scendere! Mettimi giù!
– Madre! – esclamò Gregory, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. – Non sei cambiata per niente, lo sai?
Fedria saltò giù dall’abbraccio del figlio. – Sono più vecchia di un anno – disse, assestando a Gregory un pugno sulla spalla. – E anche tu.
– Ma vedo che non hai perso le vecchie abitudini – borbottò il ragazzo, massaggiandosi la parte colpita.
– Te lo meriti. Un anno! Meriteresti che ti prendessi a legnate! – Fedria incrociò le braccia al petto, fingendo di essere adirata, ma in realtà gli occhi le brillavano per la gioia di rivedere il figlio. – Vieni qui – mormorò, abbracciandolo a sua volta. – Mi sei mancato.
– Anche tu, madre. – Gregory la baciò e la tenne stretta per un secondo, con calore. Era veramente felice.
– Che cosa ci fai qui? Non dovevi essere sulle montagne, a San Gloriano?
Gregory scosse la testa. – È una lunga storia. Dov’è mio padre? Voglio salutarlo.
La gioia sul volto di Fedria si incrinò solo un poco. – Ecco… è qui – disse. – È stato ferito da Ganelon.
Sentire pronunciare quel nome bastò a provocare un lampo di odio puro negli occhi di Gregory, come un fulmine a ciel sereno. – Grave? – chiese, cupo, già ripromettendosi di scagliare contro l’infame tutte le più ardenti maledizioni che conosceva.
– No, no. La ferita è profonda, ma non temere, si rimetterà presto. – Scosse la testa, nel gesto che Gregory conosceva bene, con cui si scrollava di dosso la tristezza. – Tuo padre ha la pellaccia dura, accidenti a lui. Vieni.
Lo ziin Julian era un uomo robusto, forte come un toro, e altrettanto cocciuto. Per questo vederlo disteso su un giaciglio, gli occhi chiusi, il torace fasciato, fece a Gregory una certa impressione, oltre ad accrescere la sua preoccupazione. – Padre – mormorò, inginocchiandosi accanto a lui. – Padre, mi senti? Sono Rega. Mi riconosci?
L’uomo voltò il capo nella sua direzione, lentamente. Un sorriso si fece strada sulle sue labbra. – Ringrazia che non posso muovermi, – disse, con voce roca, – altrimenti ti avrei già fracassato a pugni quella testaccia vuota.
– Lo so, lo so – mormorò Gregory, portandosi la sua mano alle labbra. – Sono stato lontano troppo tempo, e mi dispiace. Ma il priore Lorenço non mi ha più permesso di venire a trovarvi, e poi… poi ho combinato un guaio, e mi hanno mandato dall’altra parte della regione… – Sbatté le palpebre per scacciare una lacrima. – Sono contento di vederti, padre. Come ti senti? La tua ferita?
Malgrado le proteste di Fedria, Julian si sollevò su un gomito e si tese verso il figlio. – Come tutte le ferite, starei meglio senza – disse scuotendo la testa. – Ma tu avvicinati e dammi un bacio, Rega, se fra le tante cose non ti hanno proibito anche questo.
Gregory sorrise. – L’hanno fatto, ma ti confesso che non me ne importa molto. – Lo abbracciò e lo baciò su entrambe le guance, commosso. Poi disse: – Devo ringraziarti, padre. Ci avete salvato la vita, tu e gli altri. – Deglutì. – Io e Raphael eravamo prigionieri dei predoni di Ganelon.
Fedria lo toccò sul braccio. – Che cosa vi ha fatto?
– Non voglio parlarne – bisbigliò Gregory, rabbrividendo.
– L’abbiamo catturato. Potrai giustiziarlo tu stesso – disse Julian, con voce dura. – È un tuo diritto.
– Io… giustiziarlo? – Gregory ripensò a tutto ciò gli aveva fatto. Sentì una vampata d’odio avvolgerlo come un sudario. – Dio solo sa quanto lo vorrei fare – mormorò, con una voce che non riconobbe come sua. – Ma non mi tentare. Un servo di Dio non fa queste cose.
– Ancora con quella storia?
– Sì, padre – rispose, con voce distaccata.
Julian sospirò. – Non riprenderò un discorso che abbiamo già chiuso, Rega. Sai come la penso.
– Sì, ma mi è venuto anche tanto bene, da questa mia decisione, quanto tu non immagini. – Gregory sorrise. – Ho conosciuto una persona che da sola, con il suo affetto, vale tutte le privazioni di questi anni. Sarai felice per me, padre, te l’assicuro.
– Oh! Una donna, finalmente! – esclamò Julian.
Gregory arrossì. – Padre! Ho fatto voto di castità, lo sai.
– E poi dici che non stai buttando via la tua vita?
Fedria li guardò entrambi e sorrise. – Insomma, Julian, devi essere cieco per non vedere che a nostro figlio brillano gli occhi di felicità. Rega, non fare caso a tuo padre. Parla pure.
– No, madre, lascia stare – disse Gregory. – Ve lo presenterò tra poco, ai festeggiamenti. Si chiama Raphael. – Fece un sorrisetto. – Non lo crederai, è il figlio di Katrina. Ma ve lo racconterò più tardi, adesso devo andare. – Li baciò entrambi e si allontanò di corsa.
Una volta, Raphael gli aveva confidato che l’unico posto dove si sentiva veramente in pace con se stesso era in cima a un albero, a guardare l’orizzonte. E dal momento che a Widefield c’erano pochi alberi, fu facile trovarlo, una piccola figuretta bionda e scarmigliata a cavalcioni sul ramo di una quercia secolare. Sembrava assorto nei suoi pensieri.
Con un breve sospiro, rimpiangendo con tutto il cuore un paio di comodi pantaloni, Gregory sollevò il saio e prese ad arrampicarsi faticosamente, messo a disagio dalla scomodità dei calzari.
Raphael gli gettò uno sguardo. – Sembri padre Samuel – mormorò, con un lieve sorriso. – Un simpatico vecchino.
– Invece di prenderti gioco di me… – ansimò Gregory – perché non mi dai una mano?
– Ma certo. – Gli tese il braccio e lo aiutò a issarsi al suo fianco, con un po’ di fatica. Tardò un istante prima di lasciare la sua mano. – Sai… stavo pensando – sussurrò.
– Ai tuoi genitori?
Raphael sospirò. – Come posso saperlo? Forse quella donna, Katrina… mia madre… mi ha mentito. O forse si è sbagliata anche lei. Come posso saperlo?
– Il sangue non mente mai, Raph. Tu e Neekla siete due gocce d’acqua.
– Questo non basta.
Gregory gli passò un braccio intorno alle spalle. – Rispondimi sinceramente: sarebbe più facile, per te, se non fossero due gitani? Li accetteresti senza riserve?
– Io… credo di no – rispose Raphael, dopo un attimo. – Però questo complica le cose, in un modo che… che mi spaventa. – Alzò gli occhi, di scatto. – Se accetto, che mi accadrà? Dovrò vivere con loro? Dovrò rinunciare alla mia fede, a tutto ciò che sono? Io non voglio questo, Gregory.
– Lo so. – Il più grande gettò uno sguardo all’orizzonte, con calma. – Ti dirò una cosa, Raph. Ti racconterò la mia storia. Quando ho detto al priore Ferdinand di essere figlio di due contadini, io non mentivo. I miei genitori si privarono veramente del loro unico figlio, cioè di me, affidandolo a qualcuno che potesse dargli una vita migliore. Ma questo qualcuno non era un monastero, e neppure un uomo di religione. – Sorrise. – Era una coppia di gitani senza figli. Allora si credeva ancora che divorassero i bambini cristiani in qualche cerimonia satanica, ma i miei genitori vollero fidarsi. Erano disperati, credo, e forse pensarono che sarebbe stato meglio per me morire in fretta in pasto a due gitani, piuttosto che lentamente di fame. Così mi affidarono a loro. Avevo tre anni circa. – Scrollò il capo. – Molti dicono che io e mia madre ci somigliamo, ma è solo una coincidenza. Non ci sono legami di sangue tra noi. Quindi, come vedi, neppure io sono un vero gitano.
Raphael sbuffò. – Che bella coppia formiamo – mormorò, facendo un sorriso. – Un cristiano cresciuto coi gitani e un gitano cresciuto coi cristiani. Chi ci crederebbe?
Gregory sorrise. – Nessuno ti costringerà a cambiare – disse piano. – Io stesso sono entrato in monastero per mia scelta. Se vorrai prendere i voti, io credo che te lo permetteranno. – Chissà perché, quando lo disse sentì un sapore amaro in fondo alla gola, come di bile. Deglutì per allontanarlo, ma non ci riuscì.
– Io non so se prenderò i voti – disse Raph. – Non voglio… non voglio rimanere tutta la vita chiuso in monastero.
– È una tua scelta – assentì Gregory.
– Però non smetterò di essere cristiano – continuò il ragazzo. – Di questo sono certo. Anche se non credo che sarei un buon monaco. Sai… vederti salire su quest’albero con il saio addosso mi ha aperto gli occhi – aggiunse, sogghignando.
Gregory gli scompigliò i capelli con la mano, un po’ più crudelmente del solito. – Fingerò di non aver sentito – scherzò, lasciando scivolare la mano giù, sulla nuca, prima di spostarla. Aggiunse, allegramente: – Credo che d’ora in poi dovrò chiamarti lljena. Significa cugino. Katrina e mia madre Fedria sono sorelle per giuramento, sai.
– Mmm… seth-la? – rammentò Raphael, dopo un attimo.
Seth-lin – lo corresse Gregory. – Se lo desideri, nel tempo libero ti insegnerò qualcosa della nostra lingua.
Raphael alzò le spalle. – Sì, credo che mi piacerebbe. – Corrugò la fronte. – Greg, adesso dovrò bucarmi l’orecchio come te? Per portare… sai…
– L’orecchino? Niente ti costringe a farlo. Di solito i genitori lo applicano ai bambini ancora in fasce.
– E tu? Ricordo… – Raphael esitò. – Prima che tu venissi, si diceva che te lo fossi fatto da solo. Per spregio.
Gregory sorrise. – Stupidaggini. Spregio di cosa? E comunque nessuno, neanche i Senzapatria ritrovati, se lo fanno da soli. È una cerimonia complessa, e… be’, te lo spiegherò un’altra volta. Io l’ho preso a tredici anni. – Inspirò una boccata d’aria fresca. – Ero già cristiano, se vuoi saperlo.
– E a San Gloriano come la presero?
Gregory si rabbuiò. – Non volevo tenerlo nascosto. Sono sempre stato orgoglioso della mia gente. Quando fui ammesso, dissi al priore Lorenço chi ero e da chi ero stato cresciuto, ma non appena feci i nomi dei miei genitori… quelli che considero mia madre e mio padre, la ziina Fedria e lo ziin Julian… padre Lorenço mi ordinò di non parlare mai più con nessuno della mia identità, pena l’allontanamento da San Gloriano. E poi mi tolse l’orecchino.
– Non l’hai più riavuto indietro?
Gregory non riuscì a nascondere uno strano compiacimento che gli apparso in viso. – Nessuno può togliere a un gitano il suo orecchino e sperare di tenerlo a lungo – mormorò. – Me lo sono ripreso diversi anni fa. Il priore Lorenço, che evidentemente non controlla i suoi cassetti troppo spesso, non se n’è mai accorto. – Infilò una mano nella scollatura del saio, tirando fuori un braccio dalla manica.
– Ma… che fai? – disse Raphael, arrossendo furiosamente.
– Aspetta un attimo e vedrai – rispose Gregory, scoprendo anche l’altra spalla con un brivido. Poi gli mostrò l’interno del saio, dove una specie di rozza tasca di stoffa era stata fissata al tessuto con due grosse spille da balia. – L’ho fatto io – disse, con un sorriso. – Quando ho smesso di portare i calzoni, mi sono chiesto come fare per non dovermi separare dai miei tesori, e così… – Trasse fuori dalla tasca un piccolo orecchino d’oro, in tutto uguale a quelli dei soldati accampati nel villaggio, e un medaglione di ossidiana purissima con un’incisione bianca. Li mostrò a Raphael con orgoglio. – Tra di noi si dice che un figlio del vento ha bisogno di tre cose per essere completo: il verinil, che lo identifica gitano, il sema, il dono della propria madre, e il poros, il tatuaggio, l’eredità del padre. – Il suo sorriso si allargò. – Non è facile possedere tutte e tre queste cose. Se perdi tuo padre prima di raggiungere la maggiore età, non avrai mai il tatuaggio. Se tua madre muore dandoti alla luce o prima che abbia finito di realizzare il tuo sema, non potrai portare il nome di famiglia. – Una folata di vento gelido lo raggiunse, facendogli venire la pelle d’oca. Si ricoprì.
Raphael ficcò una mano in tasca e ne tirò fuori il proprio medaglione. Lo accostò a quello di Gregory, rimirandoli entrambi, affascinato. Erano due ovali perfetti di colore opposto, il suo rosa tiepido, quello del compagno nero come l’ebano. Anche le incisioni erano diverse. – Non so ancora cosa significhi – mormorò. – Cosa dice il mio?
Jethra – disse Gregory, con sicurezza. – Fenice.
– Cos’è un fenice?
– Una fenice. È un uccello leggendario, fatto di fuoco, che risorge dalle proprie ceneri. Rappresenta l’eternità. – Gli sorrise con calore. – Dovresti essere contento. È una famiglia molto antica e rispettata.
– Oh. – Non molto colpito, Raphael spiò l’incisione sul sema di Gregory, valutando le differenze di quelli che ai suoi occhi non dovevano sembrare più che semplici disegni. Parve esitare.
– Vuoi sapere il nome della mia famiglia? – chiese Gregory, disinvolto.
– Io… be’, sì – confessò Raphael. – Al priore hai detto di chiamarti Field, e allora mi sono chiesto…
Un angolo della bocca di Gregory si piegò all’insù. – Non ho proprio mentito, sai. Il nome di questo ideogramma è grest, che in lingua gitana significa “campo”. E anche se non dovrei accostare il mio nome da battezzato a quello della mia famiglia, come vedi Gregory Field è corretto.
Raphael sorrise. – Pensi che dovrei fare anch’io una cosa del genere? Voglio dire, tradurre il nome e tutto il resto?
– Se tu volessi, potresti. Ma questo significa che… oppure no? Hai già deciso?
Il ragazzo arrossì. – Ancora no, però… però desidero conoscerli meglio. Katrina e… e Neekla. Potrebbero piacermi.
– Ti piaceranno sicuramente, Raph. Scusami… lljena.
Lljena – ripeté Raphael, sorridendo. – Ha un bel suono.
– E aspetta di sentire il tuo nuovo nome. Solo un attimo, vediamo… jethra, la fenice… Phoenix. Raphael Phoenix. Che te ne pare? A me sembra bello.
Raphael fece un gran sorriso. – Suona bene, e mi piace. Grazie. – Improvvisamente lo abbracciò. – Grazie – ripeté, in un mormorio.
– E di cosa? – disse Gregory, ricambiandolo.
– Io… ah… non lo so. – Lo sentì sospirare, il viso appoggiato sulla sua spalla, e rafforzare la stretta. – Sono in debito… sì, in debito con te – mormorò Raphael. – Se non ci fossi stato tu, io… con Ganelon… e poi, gli altri gitani… – Serrò i denti. – Io continuo a pensarci, e mi dico… mi dico che se fossi stato solo, sarei morto. Non so che avrei fatto.
Gregory lo tenne a sé ancora per un poco, prima di lasciarlo. – Ed io cosa dovrei dire? – sussurrò. – Eri terrorizzato ma sei riuscito a darmi conforto quando ne avevo più bisogno. È stato… è stato terribile, ma senza di te avrei perso la ragione. – Lo guardò negli occhi. – Per il resto… è stato il volere di Dio. Dovresti ringraziare Lui, lo sai, e non me.
– Lo farò – sussurrò Raph. – Lo farò. Però, prima… prima dovevo… devo… – Chiuse gli occhi e accostò le labbra alle sue, intensamente, per un lungo istante.
Gregory abbassò le palpebre. – Mi ricorda…
– Anche a me. – Raphael ripose il sema nella tasca, senza guardarlo. Si muoveva con lentezza esasperata, come se non avesse più un’oncia d’energia in corpo. – Mi dispiace – bisbigliò. – Non dovevo.
Gregory lo abbracciò, d’impulso, e lo tenne stretto al petto finché non sentì i battiti dei loro due cuori fondersi in una diacronia assordante, e stordirlo e intorpidire la sua coscienza. – Ce ne dimenticheremo – mormorò. – Dobbiamo essere grati a Dio che non ci sia accaduto nulla di peggio. E il ricordo di quel mostro ci impedirà di cadere in peccato…
– Non è vero. È un’illusione – disse Raphael.
Aveva ragione: niente avrebbe impedito loro di fare una cosa che entrambi volevano disperatamente. Era solo questione di tempo… giorni? mesi? oppure, semplicemente, ore? No. Gregory lo lasciò andare. – Torniamo. Ci stanno aspettando per i festeggiamenti.
– Non ho voglia di festeggiare.
– Ti verrà. Andiamo. – Anche se non era stata sua intenzione, vide la sua durezza riflettersi nell’espressione di Raphael e ferirlo. Sospirò. – Ci passerà – mormorò, più dolcemente. – È colpa di quel mostro, che ci ha costretto a trovarci troppo vicini, più del giusto. – Posò la mano sulla sua. – Non pensarci e passerà più in fretta.
Raphael ebbe un’espressione strana, intenta. Prese la sua mano e se la portò in mezzo alle gambe, espirando leggermente al piacere di quel contatto. Poi la lasciò. Scese giù dall’albero senza dire una parola.
Gregory, rosso in viso come se avesse corso per ore, lo seguì dopo un attimo.


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