Quando si chiude il sole

di Vitani

*fic in gara al Concorso Original & Slash del FORUM YSAL

 

Il ragazzo si avvicinò, percorrendo senza rumore quella polverosa strada in terra battuta, secca, crepata. Leggeri fiumi di vapore salivano da quei vuoti, profondi come l’infinito e lunghi come serpenti neri immersi dentro il suolo ormai morto. Non c’era più niente, niente.
Un livido caldo cielo rossastro, attraversato da residui di nubi giallastre di sabbia e vapore sollevati da un vento che non c’era più, succhiando lentamente (oh, fin troppo rapidamente, in realtà!) la vita da quel mondo terminato. Schiacciò un rametto rinsecchito col piede nudo. Un piede scuro, incrostato di sudiciume. Guardò in alto, verso il cielo così uguale, di quello strano arancio sporco e fosco che la polvere dell’aria faceva vedere ai suoi grandi occhi scuri. Scuri, ma di un marrone intenso e vitale, non come quello spento del terreno che stava pestando. Stava cercando qualcuno, in mezzo al nulla. Accanto a sé non vedeva niente. Solo alberi morti, pronti a ridursi in cenere al primo tocco. Solo quei colori, marrone, giallo, rosso, in tutte le loro tonalità possibili.
Le sue gambette magre e scure si mossero. Sarebbe mai finito quel giorno che durava da centinaia, migliaia di ore? Non riusciva a vederne la fine.
Il calore s’era fatto insopportabile, e i piedi gli si erano riempiti di vesciche perché la terra scottava come se al suo interno stesse ribollendo.
Respirava a bocca larga, inghiottendo polvere che gli otturava trachea e polmoni, facendolo tossire e sputare saliva continuamente. Sentiva la gola bruciargli e la lingua attaccata al palato. Forse non avrebbe potuto parlargli. Forse sarebbe morto soffocato da tutto quel pulviscolo malefico. Ma doveva trovarlo.
Si chiamava Waltari, aveva diciassette anni. O almeno, così credeva.
In realtà, nessuno gli aveva mai insegnato a contare.
Era un ragazzo forte e sano, dalla pelle scura e teneri riccioli neri sul capo. Aveva la fronte ampia, gli occhi grandi, curiosi, limpidi, sopracciglia così nette da sembrare disegnate.
Hrysta gli aveva detto una volta che i suoi occhi sembravano quelli di una gazzella. Lui non sapeva cosa una “gazzella” fosse. Gliel’aveva domandato, e Hrysta aveva risposto che si trattava di un animale agile e aggraziato, dalle zampe lunghe.
Hrysta, quel ragazzo straniero e bellissimo dagli occhi azzurri e i capelli biondi, luminosi e chiari.
Una volta il Sole aveva avuto quel colore. Una volta il cielo aveva avuto il colore meraviglioso degli occhi di Hrysta. Quando lui era nato, il sole era già grosso e arancione, e la Terra era già calda, ma non ancora invivibile.
L’uomo sopravviveva quando molti animali s’erano estinti. Lui era nato fra quegli scheletri di esseri che un tempo erano stati compagni degli uomini.
Non c’era cibo, perché gli alberi erano morti rapidamente a causa del calore, ma non stavano male. Di tanto in tanto uomini e donne morivano per quelle brutte malattie alla pelle, ma non mancava mai la carne. Waltari non era mai uscito dal suo piccolo villaggio, perché gli avevano detto che il mondo era tutto uguale. Gli avevano raccontato strane leggende, di un mondo dal cielo blu e pieno di piante verdi, di animali, d’acqua potabile senza bisogno di essere depurata dal sale, mari profondi e freddi, e non sottili e salatissimi, tanto bassi da poter essere percorsi a piedi. Un mondo dove l’aria era fresca e c’era una stagione fredda, dove scendeva dal cielo una cosa bianca e leggera, chiamata “neve”. Lui però non sapeva cosa il freddo fosse. Poteva solo immaginare come fosse sentire il suo corpo tremare per riscaldarsi, poteva solo immaginare di toccare una superficie pietrosa sentendola gelida sotto i suoi polpastrelli.
Giocava nel deserto di sassi e terra, dove non c’era più verdura, guardando sulla sua testa un sole feroce ed enorme dalla luce morbosa, che tingeva di rosso la volta celeste e stringeva fra i suoi raggi malati una Terra che tentava di opporre quell’ultimo alito di vita che ancora restava alle sue creature. Giocava da solo, perché non c’erano bambini. Quelli che c’erano morivano subito, appena esposti al sole. La loro pelle si ammalava, e non sopravvivevano. Ogni volta che spariva un bambino, la carne non mancava mai. Lui non sapeva come avesse fatto a vivere e a diventare un ragazzo sano, in grado di correre e saltare sfidando anche quel dio bastardo che era il Sole.
Poi, un giorno, nel suo piccolo villaggio del deserto era giunto Hrysta, lo straniero che veniva da lontano.
I suoi genitori e gli anziani lo evitavano, ma Waltari era rimasto affascinato da quell’uomo che aveva la pelle chiara come il latte di una donna, i capelli di un giallo pallido che non aveva mai visto prima, occhi celesti come quel cielo blu di cui aveva sempre solo sentito parlare. Aveva uno sguardo profondo e pacato, anche se era davvero molto giovane, forse neppure trent’anni. Raccontava storie meravigliose con una bella voce musicale, intonata. Spesso cantava anche canzoni popolari, assieme a Waltari. Gli cantava delle canzoni anche su storie che non aveva mai sentito, storie di antiche civiltà perdute, a lui che non aveva mai imparato nemmeno a contare gli anni.
Spesso lui e Hrysta sedevano insieme con la schiena appoggiata ad un masso caldo, e Waltari giaceva tra le braccia di Hrysta ascoltando la sua voce meravigliosa e addormentandosi dopo un po’ mentre le grandi mani di Hrysta gli accarezzavano i riccioli neri e il corpo muscoloso da ragazzo.
Ora lo cercava. Lo cercava ma non sapeva dove trovarlo.
Erano passate ormai molte ore da quando aveva iniziato a sentire male, da quando l’aria s’era riscaldata all’improvviso e il sole era diventato sempre più grande, sempre più rosso, quasi a sembrare che avesse voluto inghiottirli definitivamente.
Il suo corpo sudava senza più controllo, espellendo velocemente gli ultimi residui di acqua preziosa che ancora conteneva. Con essa sentiva andarsene anche la vita.
Guardò il sole sanguigno coi suoi grandi occhi, sfidandolo, lui così piccolo e fiero, quel sole che occupava quasi metà del dannato cielo. Sentiva la debolezza pervaderlo, le vene scoppiare una dopo l’altra e il sangue scorrere libero attraverso il corpo, mischiato ad altri fluidi che per lui non avevano nome.
Ma doveva trovarlo.
Le gambe magre gli tremavano. Si guardò le mani. Dita ch’erano quelle di uno scheletro. Sottili, dalla pelle attaccata ai muscoli disidratati. Sanguinava dalle unghie. Presto l’arsura l’avrebbe ucciso.
«Hrysta…» sussurrò con voce flebile.
Cadde, e le sue ginocchia sparute furono scottate dal calore della terra. Urlò dal dolore, avrebbe voluto farlo, ma dall’inaridita bocca e dalle labbra spaccate uscirono soltanto un rauco e prolungato lamento e dei gemiti sommessi.
I piedi avevano già da tempo smesso di percepire qualcosa.
Ora sentiva fitte pericolose alle gambe, dolorose come spine, e la rabbia e l’impotenza facevano sanguinare labbra spellate già morse a sangue. Sangue che Waltari bevve, per sopravvivere un minuto di più.
«Hrysta…»
Alzò il capo, incurante dei riccioli che gli coprivano gli occhi. Perfino i suoi capelli non erano più morbidi, ma arsi, bruciati. Gli stavano dritti come se li avesse colpiti un fulmine.
Poi i suoi occhi grandi lo videro, si aprirono.
Si alzò d’improvviso, arrancando sugli arti feriti, rischiando di cadere, ustionandosi ancora.
Le ginocchia non l’avrebbero retto per molto, così tentò di correre finché ancora poteva, come faceva un tempo, saltando nel deserto e facendo a gara col vento caldo.
I suoi dèi l’avevano abbandonato da tempo, solo Hrysta era con lui.
Il suo dio.
Voleva ascoltare la sua voce magica che calmava il cuore, quella voce che l’aveva stregato dal primo istante.
Lo vide, accasciato sotto il Sole malefico, con la schiena appoggiata a una roccia sporgente.
Arrivò, senza parlare, e lo vide aprire gli occhi azzurri e tentare di sorridergli.
Waltari lo prese fra le braccia, e le sue mani sostennero la schiena ustionata di Hrysta.
Waltari avrebbe pianto se avesse avuto lacrime. Se le sue lacrime non fossero nate già secche.
Baciò più volte Hrysta sul bel viso.
Era sereno, come era sempre stato, e si sforzava stare tranquillo malgrado il dolore che certamente provava.
Waltari lo tenne dolcemente abbracciato, carezzandogli i capelli biondi e appoggiando la fronte al corpo caldo dell’uomo.
Non gli avrebbe detto che tutti gli altri erano morti, quando il Sole s’era ingrossato a dismisura, uccisi dal calore, dalla sete, soffocati dalla cenere.
Non gli avrebbe detto che erano rimasti soltanto loro due, e che anche loro stavano per andarsene.
Hrysta lo guardava con quei suoi splendidi occhi azzurri, e Waltari si stese su di lui, baciandogli le labbra.
Non avrebbe resistito senza di lui, mai.
Continuò a baciarlo, guidando le sue braccia quasi senza forza lungo la sua schiena, e lasciandosi stringere da lui in quell’ultimo, mortale abbraccio.
Stava per addormentarsi quando ricordò… ricordò cos’era stato Hrysta per lui.
Ricordò come fosse stato evitato da tutti per il suo aspetto, così diverso dal loro, uomini dalla pelle scura e corpi possenti, lui sottile come un giunco, pallido e dai capelli biondi.
Waltari l’aveva visto arrivare, i loro sguardi s’erano incrociati, e s’erano immediatamente amati.
Fin da subito erano stati attirati da una passione reciproca che andava ben oltre l’amore platonico. Hrysta aveva trovato in Waltari un ragazzo sveglio, intelligente, desideroso solo di imparare.
Waltari aveva trovato in Hrysta un maestro paziente e un dolcissimo amante.
Avevano passato giorni interi a fare l’amore lontano dal villaggio, fin quasi a stare male.
Nemmeno la prima volta fra loro c’era stata titubanza.
Sapevano di dover vivere, per godere di ogni attimo che quella precaria vita concedeva loro.
Per questo assaporavano ogni singolo istante, ogni singolo tremito del corpo dell’altro, mentre silenziosamente attendevano che il loro orologio smettesse di correre.
Avevano l’illusione di poterlo fermare per sempre, in quei momenti.
Estatica onnipotenza, giovinezza, vana speranza.
E ora sarebbe giunta la fine.
Il calore lo stava stordendo, mentre giaceva steso sul petto nudo di Hrysta.
Continuava a muovere le labbra sul suo corpo come se lo stesse baciando, mentre non sentiva più nulla, solo il rumore del cuore di Hrysta che ancora, con determinazione, batteva all’unisono col suo.
Non sentiva più nulla… solo il rumore del suo cuore e le sue braccia forti attorno alla schiena…
E finalmente ai suoi occhi apparve un cielo, blu come gli occhi del suo adorato, fresco più dell’acqua di sorgente, scaldato da un sole tenero e chiaro, come i capelli morbidi di chi lo amava.
L’ultimo giorno del mondo.