E poi il buio

di Disheart

 


Il Nocchiero fendeva l'aria sanguinante del tramonto ormai inoltrato, sorvolando l'infinita distesa d'acqua e distorcendo in essa il proprio riverbero, mentre il pilota, come ogni sera, scrutava l'oceano che ondeggiava sotto la massa lucente del suo immenso drago di metallo.
Il riflesso della macchina richiamava alla mente l'immagine alterata di un fluttuante ammasso di lamiera contorta, deformata da crudeli capricci di onde isteriche.
La Luna, enorme, si stagliava tra remote nuvole di fiamme e cotone, annunciando solenne l'imminente vespro di cenere.
Eden 027, l'isola artificiale che galleggiava nel cielo, sembrava stranamente vicina, come se la si potesse sfiorare tendendo la mano.
Il pilota fissava le proprie dita protendersi invano verso quel lapidario groviglio di terra e metallo, oscuri serpenti dai contorni agonizzanti nelle fiamme scarlatte del crepuscolo, aspettandosi quasi che la gelida aria di velluto e rubino che le avvolgeva le ardesse piano fino a ridurle in polvere. Lentamente, senza la minima fretta; come l'attendere la notte.
La foga del tramonto era ormai congelata, sospesa nel vento, ingemmata di rugiada crudele, e il sole sembrava restio ad immergere il suo immenso anello di fuoco nel mare orribilmente ghiacciato.
Il pilota distolse lo sguardo dall'isola fluttuante ed ignorò le immagini dell'Aviary, lievemente alterate nello spessore dello schermo di vetro.
Era la prima volta che l'Aviary, il settore più blindato e sorvegliato della Gabbia, veniva utilizzato.
Il pilota aveva lanciato una rapida occhiata al suo occupante, un ragazzino dal corpo esile e dallo sguardo spezzato, atterrito al punto di non avere la forza di implorare indulgenza.
Aveva scosso la testa. Era impensabile che un moccioso del genere fosse talmente pericoloso da obbligare l'Enea a servirsi di quella prigione speciale.
Non c'era niente di cui preoccuparsi. Le griglie erano solide, e l'I-child inaspettatamente tranquillo.
Non era poi così difficile. Ci aveva fatto l'abitudine.
Era il Nocchiero. Il Nocchiero era questo. Niente di più semplice.
Il Nocchiero volava, e lui voleva volare; e ripudiava la terra da cui lui, indubbiamente, voleva fuggire.
E il Nocchiero lo graziava, gli permetteva di andare avanti, di non essere giustiziato.
No, non era affatto difficile, fingere di non vedere.
Perciò, ancora una volta, non rivolse lo sguardo alla gabbia.

Il ragazzo lo scrutava tediato, lievemente infastidito dal silenzio circostante, l'esile corpo arreso contro la parete interna dell'Aviary.
Perso tra cineree spire di noia, osservava il pilota tendere le mani al liquido sepolcrale del crepuscolo, come se bramasse con tutte le sue forze l'essere inglobato da quell'utero di cera.
Certo non era lui quello livido e incatenato, pensò il ragazzo ridacchiando.
Talvolta, i suoi occhi grigiastri lanciavano uno sguardo distratto attorno alla cella, costringendolo a proiettarsi all'interno del Nocchiero. Il ragazzo si vedeva tornare ferito, legato, con l'anima fradicia appesantita da quella quiete gemente intorbidata dal vetro.
Ma non sarebbe durato a lungo, lo sapeva; presto si sarebbe perso di nuovo, perché è per trovare la pace che il vento grida così forte, che fruga dappertutto senza trovarne un brandello, e ansima e geme, e farnetica discolpe perché sa di non poterla raggiungere.
Perciò poteva anche ignorarlo, tanto a nessuno sarebbe importato.
Il ragazzo tornò a guardare la figura del pilota sbozzata contro la luce cianotica.
E' una falena, pensò. Brancola nel nulla della sua anima sterile, si getta avido su ogni bagliore, e finisce per corrodersi tra le sue volgari fiamme asettiche.
Un pensiero volò verso la propria casa, fredda scatola di cemento annerito, e le rovine di fango e metallo, che il ragazzo era solito scalare per sentirsi il più vicino possibile ai vasti cieli di catrame che un giorno, sperava, avrebbe raggiunto.
Scoprire che non aveva la minima voglia di tornarvi non lo sorprese poi molto. La nostalgia era troppo noiosamente scontata, pensò sospirando.
La guerra continuava, ma quella nel suo cuore era già cessata da un pezzo, svuotando il suo petto contuso e lasciando arido e devastato il fosco paesaggio della sua anima.
L'anima che aveva perduto.
Non sapeva con precisione quando questo fosse successo. Non sapeva perché.
Semplicemente, se n'era andata. E lo aveva reso un gelido, spossato ammasso di carne meccanica.
Lanciò uno sguardo al pilota. Valeva la fatica di vomitare qualche parola?

"Stiamo andando lassù?" chiese il ragazzo, indicando il soffitto con il dito sottile, mentre le catene che gli avvinghiavano i polsi tintinnavano dolcemente nell'etere. "Come mi uccideranno?" La sua voce distesa suonava quasi sinistra in mezzo al silenzio, confusamente ammantato dalle urla convulse dei prigionieri ormai sbarcati, ed il pilota sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale quando una risata di scherno si disperse nella cabina.
"Immagino che la mia domanda ti metta in imbarazzo. Dopotutto, sei tu lo stronzo che mi sta facendo ammazzare. Senza offesa, naturalmente." continuò il ragazzo, apparentemente divertito.
Il pilota non poté astenersi dal guardare il ragazzo da uno dei monitor secondari e sussultò non appena vide due inquietanti occhi grigi puntati proprio verso di lui. Per un attimo pensò che il ragazzo lo stesse fissando attraverso lo schermo, e sospirò di sollievo quando la sua mente riuscì a trovare la lucidità necessaria a stabilire che non fosse possibile.
La sua mano si mosse per disattivare il video, quando quello alle sue spalle saltò in aria.
"Non spegnerlo." sorrise il ragazzo, innocente. "Potrebbe esploderti in faccia."
Il pilota si irrigidì.
"Sai, qui dentro fa piuttosto freddo. Ho le ossa gelate. E le catene -le tue fottute catene- mi stanno strappando via la pelle. Vedi?" disse, sollevando i polsi ormai violacei. "Fa male. Non troppo, certo. Ho visto decine di tizi a cui avete aperto un buco nella pancia. Quello deve fare male sul serio. Mi piacerebbe fartelo provare. Mi piacerebbe davvero." continuò, guardandosi intorno e giocando con le catene. "Quando arriviamo?"
Il pilota non rispose, e calò il silenzio.
"Puoi liberarti?" chiese infine, con voce inquieta.
Il ragazzo rise deliziato. "Hai paura di me?"
Il pilota si irritò. Quello che aveva davanti era poco più che un bambino, legato, ferito e rinchiuso aldilà di una fila di robuste inferriate.
Stava forse scherzando? Come avrebbe potuto avere paura di lui?!
"Se potessi uscire l'avrei già fatto, non ti pare? Non per nulla mi hanno messo in questa scatola." ridacchiò, cercando di scostare dal viso scarno una lunga ciocca di capelli sporchi.
"Ma. tu. il video. tu. tu. l'hai."
Il ragazzo scoppiò in una risata. "Non scherziamo! Non sono stato io. È successo per caso. Era guasto, e mi è sembrato divertente prenderti in giro. Senti, quando arriviamo?"
Il volto del pilota sembrò distendersi, ed il suo corpo farsi meno rigido.
Il ragazzo era nell'Aviary. Certo, si trattava di un I-child, ma la cella d'isolamento nella quale era rinchiuso era troppo sicura: non avrebbe potuto usare il suo esp.
"Fra una o due ore." rispose, esaminando le misere spoglie del monitor distrutto.
Il ragazzo mormorò qualcosa, ma la sua voce si perse tra i pianti spasmodici del motore.
"Cosa?" chiese il pilota, alzando lo sguardo.
"E' noioso, qui dentro." ripeté il ragazzo, giocando con le catene.
Il pilota lo fissò confuso. Nessuno aveva mai detto niente del genere, nella Gabbia.
"Tu sei malato." sospirò, cercando di ignorarlo.
"Può darsi, ma non sono io quello che ha mandato al macero - quante? - un migliaio di persone?"
"Senti, stronzetto, sto solo facendo il mio lavoro, e comunque."
".e comunque se non l'avessi fatto tu, sarebbe stato qualcun altro."
"Esatto! Sarebbe stato qualcun altro!"
".ma sei stato tu."
"."
"Voglio vedere la luna." disse il ragazzo, appoggiando la schiena alla parete ghiacciata.
Il pilota non rispose.
"Voglio vederla." insisté il ragazzo.
"Falla finita! Non ho nessuna intenzione di perdere tempo con le tue stronzate!" gridò il pilota, opponendosi all'impulso di voltarsi verso la Gabbia.
Il ragazzo sbuffò, seguitando a giocare con le catene.
Non aprì bocca per la mezzora seguente, finchè non sentì l'inconfondibile ronzio delle Api.
Il pilota osservò le loro sagome stagliarsi contro la fredda tela di lino del crepuscolo, che ancora preservava dal blu della sera esitanti ghirlande d'un incerto rossastro.
Le loro dimensioni erano talmente irrisorie da farli sembrare insetti, ma il pilota sapeva che avrebbero potuto radere al suolo un'intera città.
"Chi c'è, là fuori?" chiese il ragazzo, lievemente incuriosito.
"Alleati." bofonchiò il pilota, spazientito dall'interruzione.
"Alleati." ripeté il ragazzo. "Ma che importa? Tanto, sono tutti uguali. Oh, scusami. Tu crederai che vogliano liberarvi." ribatté il ragazzo, cercando di umettare le labbra aride e spaccate con una lingua secca ed ormai disidratata. "Ma sono tutti uguali." confermò.
Il pilota fece spallucce. Non aveva del tutto torto. Ma cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto farsi ammazzare?
Il ragazzo prese a picchiettare le nocche sul vetro. "Com'è?"
"Com'è cosa?"
"Quella roba che stai bevendo."
"Il caffè?"
"Hn."
"Uno schifo."
"C'è il latte?"
"Sì. Beh, giusto uno sputo."
Il ragazzo ridacchiò. "Non ho mai bevuto del latte. Cioè, solo quella specie di liquido giallastro che distribuiscono alle assegnazioni. Ma dubito che quella roba si possa chiamare latte."
Il pilota sospirò. Quel piccolo stronzetto non lo avrebbe lasciato in pace per il resto del tragitto. Poco ma sicuro.
"Ce l'hai qualcosa di alcolico? Ho voglia di sbronzarmi."
"No, non ho niente." sbottò irritato.
"Nella tua borsa c'è una bottiglia di gin. E l'hai messo anche nel caffè."
Il pilota non sapeva cosa rispondere. "E'. è quasi vuota."
"Sì, lo so. Brutto vizio.ridacchiò il ragazzo. "Lo so, è il tuo lavoro. Non ti porterò rancore, quando saremo lassù ed i loro bisturi assaggeranno il mio corpo. Perché io e te siamo simili. È così. Siamo simili. Abbiamo troppe colpe sulle spalle per poterci permettere di rimanere sobri."
Il pilota non riuscì a replicare.
"Va bene, niente gin."
"Senti, se proprio lo vuoi."
"Dì un po', dov'è che sei nato?" lo interruppe il ragazzo.
"Cosa?"
"Dove. Sei. Nato." ripeté calmo, scandendo le parole.
"E03. Su Chicago." rispose.
"Oh. Carino." disse il ragazzo in tono formale, giocherellando con una ciocca di capelli.
"Sì, lo era." sussurrò il pilota. Lo era, prima che le Api lo radessero al suolo. "E tu?" domandò, dopo una lunga esitazione.
"Io?" chiese il ragazzo, voltandosi a guardarlo.
Il pilota si smarrì nell'imbarazzo. "Sì, tu. cioè. dove sei."
"Quanti anni hai?" chiese di scatto, troncando la domanda del pilota.
"V. ventiquattro."
"E come ti chiami?"
"Cos'è, un interrogatorio?" sbottò, ma si sorprese quasi divertito. Se ne vergognava, è vero, ed il suo orgoglio pulsava di sdegno cercando invano di farsi ascoltare; ma il pilota non era affatto infastidito da quella conversazione.
Se ne è accorto, pensò. Il ragazzo se ne è accorto. Era talmente ovvio!
"Un interrogatorio? Sì, se vuoi metterla in questi termini! Per quanto mi riguarda, preferisco chiamarlo intrattenimento. Puro svago. Tu mi piaci."
"Ti sto portando sull'Eden. Non può piacerti qualcuno che ti sta portando sull'Eden!"
"E chi lo dice? E poi, fisicamente non sei male."
"Cosa?"
Il ragazzo rise. "No, non è vero. E' che non so cosa fare, qua dentro. È talmente noioso."
Noiosa l'Aviary? Lui la trovava atroce!
Per la prima volta si chiese se il ragazzo sapesse realmente cosa gli sarebbe accaduto quando fossero giunti su E27. Ma aveva fatto chiari accenni agli esami a cui sarebbe stato sottoposto. forse è impazzito, pensò. Lo sa, ed è impazzito.
Ma lui era il Nocchiero, ed il Nocchiero era questo. Non poteva farci niente.
Il ragazzo leccò via alcune stille di sangue che colavano sulle sue braccia minute.
Non poteva farci niente. Proprio niente.
Sangue. Carne livida. Morte. Distruzione.
Era ciò che aveva sempre visto. Ciò che aveva sempre vissuto. Ciò che, da quando pilotava il Nocchiero, aveva imparato ad ignorare.
L'aveva sempre fatto, rimuovendo con scrupolosa cura le consapevolezze che lo laceravano alla fine di ogni viaggio.
E allora perché?
Perché questa volta era così difficile?
Tuttavia, pensò, nell'Aviary non erano necessarie manette e catene a lacerare quella pelle candida imperlata di sangue scarlatto. Il ragazzo stava per andare al macero e, si disse, ne era perfettamente cosciente. Non era già abbastanza crudele?
No! Non era crudele! Era il suo compito! Era qualcosa che doveva accadere, che qualcuno doveva pur fare! Era sopravvivenza! Non poteva fare altrimenti, non poteva.! Se non lo avesse fatto lui, lo avrebbe fatto qualcun altro.
Ma era stato lui.
Il pilota schiacciò un pulsante e le manette caddero a terra tintinnando.
Il ragazzo le fissò confuso, poi guardò il pilota e cominciò a ridere. "E adesso non dirmi che mi farai uscire! Ti prego, evitalo, sarebbe così noiosamente scontato.!" riuscì a dire, tra le risate convulse.
"Stà zitto, moccioso. Non mi concederanno la licenza per almeno un anno, per questo."
"Bella cosa da dire ad uno che sta per morire!" continuò a ridere il ragazzo. "Molto consolante! Davvero!"
"Bah."
Il pilota trangugiò una sorsata di gin e sentì la propria gola incendiarsi.
"Grazie." disse il ragazzo all'improvviso, con un tono che il pilota non aveva mai sentito.
"Hm. Non pensarci."
Il ragazzo lanciò in aria le manette.
"Hai mai visto un I-child?"
"No."
"Dimmi perché."
"Cosa.?"
"Perché esistiamo."
"Non sono bravo con i discorsi esistenziali."
"Nessuna stronzata esistenziale. Voglio solo sapere di chi sia la colpa. So già chi ci caccia. So già il perché. Voglio solo sapere chi è il bastardo che si è divertito a creare dei mostri."
Il pilota sospirò. "Mi dispiace, non so nemmeno questo."
"Dici che ti uccideranno. È lampante. Quelli non ci risparmieranno. Né me, né te. E' solo questione di tempo." sussurrò.
"Ma io. non sono un I-child."
"No, certo che no." rispose il ragazzo. "Ma li tradirai."
Il pilota non riuscì a rispondere. Non aveva mai neanche preso in considerazione l'ipotesi di opporsi a loro. Non ci aveva neanche lontanamente pensato. Troppa fortuna il Nocchiero gli aveva riversato addosso, e troppa protezione. Per quale assurdo motivo avrebbe dovuto gettare via tutto?
E perché adesso sentiva che l'avrebbe fatto?
"Sai, mi piacevano quelle manette. Mi tenevano la mente occupata." Ridacchiò il ragazzo.
Il pilota sorrise debolmente.
"Va bene, resterò qui dentro." asserì, come se davvero avesse potuto liberarsi. "Mi arrendo, ormai. Completamente. Il tempo scorre troppo veloce. Però, ti prego, avvicinati."
"Sì." balbettò il pilota, voltandosi lentamente, e con gli occhi incollati sul pavimento si diresse verso l'Aviary.
Non sapeva perché stesse assecondando il ragazzo, ma evitò con tutte le sue forze di guardarlo. Neanche davanti alla cella riusciva a trovare il coraggio di farlo.
"E adesso?" chiese imbarazzato.
"Siediti a terra, con la schiena contro il vetro."
Il pilota obbedì.
"In questo modo, riesco a sentire la tua vita. I tuoi ricordi, i tuoi pensieri. tutto scorre attraverso il mio corpo. La tua anima scorre dentro di me."
Il pilota avvertì una vaga urgenza di ritrarsi, ma non si mosse di un soffio. Il suo cuore accelerò i battiti, i suoi occhi si chiusero piano, ed una sensazione di pace, calda ed inviolata, pervase le sue membra irrigidite dagli anni d'apatia.
Non voleva scoprirsi. non voleva svelarsi. ma ora. ora.
"Adesso lo sai. Sai che ho fatto saltare il monitor. Sai che potrei uscire. E sai anche che non lo farò." sussurrò il ragazzo.
"Cosa. cosa sta succedendo?" mormorò flebilmente.
"Lo sai benissimo!" sorrise il ragazzo. "Sai cosa accadrà."
Era vero: lo sapeva. Sapeva come salvarsi. Come salvare entrambi. Finalmente l'aveva capito, e non c'era bisogno di alcuna parola.
Il pilota si voltò e per la prima volta lo vide.
Un corpo esile, livido, come spezzato. Gli occhi grigi, ingemmati da lunghe ciglia corvine, non erano freddi come quelli attraverso lo schermo. I capelli ondulati e corvini erano imbrattati di sangue.
Era talmente diverso da lui, eppure era come guardare sé stesso.
Era come guardare l'altro volto della luna.
Il pilota si alzò ed aprì l'Aviary.
"Stai bene?"
"Per niente!" rise. "Però, adesso..." sussurrò il ragazzo, intrecciando le dita bianche e sottili a quelle del pilota. ".adesso non importa."
Le loro ombre, stagliate contro il crepuscolo, si avvicinarono piano fino a congiungersi.
Ora ricordava; doveva esistere un cielo, là da qualche parte, oltre quella ressa di lamiera e fantasmi di fumo.
"Cos'hai da ridere?"
"Niente. pensavo solo che. non so neppure il tuo nome."
Aveva colto l'esistenza di un oceano sotto i suoi piedi, e intuiva la vaga percezione di nubi sfilacciate sopra la sua testa.
"Ma va bene così."
Il mare sarebbe stato caldo e accogliente. ma l'unica cosa a cui riusciva a pensare era il cielo.
Nessun paradiso. Nessun inferno. Solo il cielo, nel fatiscente manto del crepuscolo che scortava la notte e le sue liquide stelle.
"Andiamo."
Solo il cielo. Nient'altro che il cielo.
E poi il buio.


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