Dog Eat Dog

parte VIII

di Hyoga & Snatch



Quando Sonny mise in moto la Buick, non vedeva in faccia lo sbirro da due ore.
"Ed è bene così.", aveva detto Sedgwick.
Adesso Sonny poteva sentire lo sballottamento nel cofano, simile a un peso troppo grosso alle proprie spalle.
Ecco, proprio così.
"Non parlarci, non togliergli il bavaglio fino all'ultimo.", aveva detto Sedgwick. "Estrai la pistola e spara senza guardarlo."
"Non portarlo nella roulotte."
La roulotte era niente più e niente meno che una roulotte, abbandonata nella palude, lontana da strade e tratti percorribili.
Certo, a meno che uno non la conoscesse e ci andasse di proposito.
Altrimenti era nulla in mezzo al nulla.
Avrebbe dovuto passarci due settimane.
Due settimane, più o meno, senza nessun contatto (per questo la macchina pesava anche delle scorte d'acqua, e di cibo, e tutto quello che in fretta erano riusciti a racimolare negli appartamenti).
Poi, sarebbe arrivato uno di loro. Non Sedgwick, no, lui doveva rimanere in città a tenere d'occhio la situazione. Senza Sedgwick sarebbe andato tutto a puttane.
Non che così le prospettive fossero rosee ma intanto salvati il culo.
Prese l'ennesima deviazione, quindici gradi sulla sinistra o sulla destra, una svolta nulla nel nulla.
Gli venne in mente l'America delle strade.
Quella dei viaggi in cui collocare tutto il continente, le tappe obbligate, le città e i paesaggi e tutto quello che si era detto un giorno avrebbe visitato.
Percepì il tempo disgregarsi, movimenti tellurici e la deriva dei continenti, e un blocco di troppo tempo davanti a sé in cui l'unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stata cavarsela.
Non vai contro la legge se ti accontenti di vivere cavandotela.
All'ennesima svolta dopo la svolta dopo la svolta, quando ormai l'aria puzzava di palude e le ruote scivolavano sulla terra umida, svoltò di novanta gradi; una manovra da steccato rotto, ma non c'era neanche uno steccato da rompere: chi va a infilarsi nel bel mezzo degli acquitrini?
E da lì, altri trenta minuti a venti miglia all'ora.
Si concentrò sull'obiettivo di una guida perfetta, sporcare quanto meno poteva le fiancate bianche; obiettivo insensato, ma che gli occupava la mente.
Lo sbirro nel bagagliaio.
Scacciò ancora e ancora quel pensiero, e la sua netta conclusione.
Lo sbirro secco è la conclusione.
Prima lo sbirro, poi tutto il resto.
Prese una sigaretta, benedetto tabacco, dal cruscotto.
La mise in bocca, fece per accenderla, si rese conto che era troppo nervoso persino per fumare.
Voleva le mani libere, salde, sul volante.
Fino alla roulotte.
Ancora dieci minuti.
Cinque.
E a quattro, forse tre minuti dalla roulotte il pensiero risalì, come se stesse per vomitarlo.
Era stato proprio convincente con Sedgwick e gli altri.
Cazzo, non era mai stato così convincente in tutta la sua vita.
Così convincente che, lo realizzò come realizzando di aver stretto il cappio attorno al proprio collo, aveva convinto anche sé stesso con quella storia della pena capitale.
Ma funzionava.
Sbirro morto nel bagagliaio, pena capitale.
Cristo se funzionava.
Ma quando l'aveva proposto non sapeva che funzionava.
Aveva semplicemente tirato fuori la scusa più credibile che gli era venuta in mente.
Che non centrava un cazzo con la reazione che aveva avuto vedendo Syd puntare una pistola all’agente.
Due minuti, o poco meno alla roulotte.
E' che proprio non poteva lasciare che lo sbirro crepasse così, come sbirro, senza dire a Sedgwick e ai ragazzi che lo sbirro in questione gli aveva salvato il culo (beh, almeno la prima volta ci aveva provato) e poi lo aveva anche scarrozzato all'ospedale.
Un minuto alla roulotte.
La verità era che non aveva avuto le palle di dire a Sedgwick e agli altri tutto quanto, compreso il culo sfasciato, e ora gli toccava raccogliere da solo i pezzi e…
E…?
E sparare allo sbirro. Giudicare che lo sbirro andava fatto fuori, e sparargli.
Quando vide la roulotte, la voglia di fumare una sigaretta era diventata insostenibile.
Parcheggiò di fianco alla roulotte verde marcio, fango incrostato da anni, calcificato sulle ruote inservibili.
Prese le sigarette, dal cruscotto, e se ne infilò una in bocca; la pistola, dal cruscotto, e tenendola in mano scese dall'auto, camminando fino al cofano come se i passi fossero disegnati per terra, e lui dovesse semplicemente riempire il proprio futuro con un gesto.
Stando sulla sinistra, dove doveva essere la testa dello sbirro, il ferro nella mano destra, sollevò il cofano con uno strattone, e puntò.
Reynolds sbatté appena gli occhi alla luce improvvisa. Per il resto, mantenne il consueto contegno. Lo sguardo, dopo i primi battiti di palpebre, si fissò su Norton, impietoso come un occhio elettronico.
Sapeva che stava per crepare. Inutile farsi illusioni, era arrivato il suo momento. Lo affronterà ad occhi aperti e non faciliterà il compito a quel negro del cazzo. Neanche un po'. Dovrà premere il grilletto coi suoi occhi puntati in faccia.
-Esci.- gli disse Sonny, più perentorio di quanto avrebbe potuto, e si allontanò di qualche metro per dargli spazio.
Agile - per quanto possa esserlo un uomo con le braccia legate dietro la schiena - Reynolds uscì dal bagagliaio, i movimenti elastici e controllati di un predatore.
Si raddrizzò distendendo la schiena, si guardò intorno.
La palude. L'odore del fango e delle piante marce evocava un cimitero. In effetti lo stava per diventare.
Strinse i denti. La lunga immobilità aveva accentuato il dolore. Le costole, sulle quali aveva ricevuto un certo numero di calci, stavano implorando pietà. Ogni respiro era una stilettata.
Diede un gemito soffocato tendendo la schiena.
-Vai.- gli disse Sonny, insofferente, la sigaretta sopra l’orecchio, e usò la pistola come fosse un'appendice della mano per indicargli una direzione, una x tra le migliaia possibili in quell'umido deserto marcio, la cui terra sembrava sommergerti a ogni passo, granello dopo granello.
Reynolds, frattanto, faceva i conti con l'eternità. Chissà com'è morire, si chiese. Aveva visto gente morire e gente morta. La gente morta era fredda e non si muoveva più. Nient'altro. Né aldilà, né trascendenza. Non un Dio che si scomodasse a giudicare, non un diavolo che reclamasse le anime dei cattivi. Altrimenti sai che straordinari all'inferno?
Curioso, l'aveva visto succedere tante volte e ora toccava a lui. Si preparò a fare il grande salto con dignità. Solo questo contava ormai.
La palude seguì la palude, e poi venne palude e altra palude.
Solo due cose cambiavano.
La terra, sempre meno terra e sempre più fango, sempre meno corposa, scrollarsela di dosso divenne impossibile. L'unica era arrendersi, e accettare che piano piano si seccasse sugli stinchi, l'umidità venisse assorbita dalla carne.
E la vegetazione.
Sempre più fitta, nei radi cespugli, ma sempre più aggrovigliata.
Sottili rami molli si ammassavano in mucchi, quelli sotto marcivano schiacciati da quelli che li ricoprivano, si decomponevano, diventavano palude, davano nuova linfa per i germogli.
Il poliziotto osservava tutto, acuto e analitico anche a un passo dalla morte. O meglio, a un passo dalla consapevolezza di morire. A un passo dalla morte vive chiunque ogni giorno.
Valutava le possibilità, poche in effetti, di sfuggire al suo destino. Avere le mani legate dietro la schiena e uno con una pistola puntata a due metri dal culo in mezzo ad una palude non era una bella situazione.
Considerò la cosa con distacco. Non era rassegnato, era solo realista.
Si impedì i ricordi lacrimevoli e le considerazioni su come anche quel purulento angolo di palude assumesse connotazioni di insospettata bellezza ad un passo da una pallottola nella nuca.
Strinse i denti caparbiamente. Nervi saldi, agente Reynolds, fa vedere a questo pezzo di merda cosa vuol dire avere le palle.
Sonny, dietro di lui, camminava a sguardo basso.
Non era che una conseguenza della pistola, che si era abbassata, di poco ma quanto bastava a farlo procedere a testa china.
Capì con scottante semplicità perché una pistola andava tenuta alta. O uno sguardo. O qualsiasi altra cosa nella storia avesse visto rappresentare una situazione sul filo del rasoio.
Tentò di risollevare il braccio, ma per quanto cercasse di tenerlo dritto questo cedeva, il gomito si piegava, l’articolazione doleva.
Ma mancava poco.
Buttò uno sguardo oltre, a dopo.
Tornare indietro con i piedi sempre più inzuppati, e si chiese se un acquitrino avrebbe potuto avere più volontà di lui.
Ma erano arrivati, era questione di decine di metri e sicurezza in più o in meno.
-Qui.- disse a un certo punto, e si fermò.
Reynolds si voltò fino a trovarsi faccia a faccia. Che lo ammazzasse guardandolo negli occhi.
Voleva vederlo premere il grilletto.
Sonny, Sonny Norton e tutti gli appellativi e le azioni che si era portato appresso fino a quel momento, guardò gli occhi azzurri del poliziotto.
Li aveva sempre odiati, freddi occhi da bianco, profondi quanto una nuvola che oscura il cielo.
E pensò, il primo pensiero completo e leggero della giornata, che la sigaretta del condannato se la sarebbe fumata lui.
Se lo meritava.
Giusto il tempo di calmare i nervi, come la nicotina sapeva fare, e poi puntare senza tremori nelle dita.
Con la mano sinistra, la canna ancora protesa in avanti ma non abbastanza da farne vedere la profondità a Reynolds, prese la sigaretta che aveva dietro l'orecchio e se la portò alle labbra.
Commise la cazzata, e l'accese.
L'agente guardò il ragazzo fumare. Gli occhi acuti si fissarono sulla mano che tremava impercettibilmente.
-Prima volta che ammazzi qualcuno guardandolo in faccia, negro vigliacco?- Il tono è gelido fu sferzante, colmo di un disprezzo assoluto.
Sonny tirò la prima boccata, calda e corposa.
Il piacere dei piccoli gesti.
E gli stronzi che t'inciampano davanti, sputandoti addosso.
Alla fine lo fanno tutti.
Lui nella vita, Reynolds in punto di morte.
-Dimmi, che effetto fa? Dimmelo con parole tue, negro. Io lo so già.-
Seconda boccata, così lunga da sentirla pungere in gola.
E risvegliare un malore che, tra una corsa in strada e una in macchina, si era assopito.
Quel fottuto ragnetto artigliato alle tonsille di Sonny, e che si era dimenticato di deglutire.
-Non ho mai messo i piedi davanti a nessuno sbirro.-
Terza boccata, seconda cazzata.
Non parlare con…
Ma ormai era fatta, era lì, il mirino puntava già il torace.
Bastava premere.
Reynolds continuò a fissarlo, apparentemente imperturbabile.
Sonny tirò leggermente indietro l'indice, e sentì il metallo duro aprirgli la carne come burro.
Quarta, e quinta boccata, perché non osò muoversi.
Se fosse spirato del vento, il vento avrebbe premuto il grilletto.
Ma era Sonny a doverlo premere.
Era solo questione di concludere con una frase, dato che con una frase aveva iniziato.
-Non ti serve non avere paura. Stai per morire. Crepare. Rimangono gli alligatori.-
E il grilletto sembrava essere interamente inglobato dalle dita.
Cazzo…
-Sei tu che hai paura, negretto.- La voce impersonale, quasi sintetica. E quel diminutivo odioso, negretto, che mostrava tutto il suo disprezzo, pronunciato mentre la sigaretta era arrivata a bruciare le labbra di Sonny.
La pistola era su, come prima, ma lui era eoni dopo.
In un tempo in cui era riuscito a considerare tutto.
Che Reynolds era pietrificato, e lo shock modella le persone.
Che avrebbe potuto, sarebbe stata la cosa più naturale, rispondere con un insulto, e poi sparare.
O insultare, e crollare.
Crollare, e persino spararsi.
Tutte queste cose, nella sua testa, contemporaneamente, così tante idee, ipotesi e possibilità che non rimase spazio per agire.
Ma sarebbe stato più corretto dire che non rimaneva senso.
E poté dirsi, sempre nella stessa frazione di secondo, che anche quelle erano tutte scuse.
E lui, anche se la pistola stava su, era ormai fatto della stessa materia della palude.
Il poliziotto non distoglieva gli occhi.
-Ci facciamo notte in questa palude del cazzo?- domandò asciutto. Il tono era lo stesso che avrebbe potuto usare per chiedere i documenti ad un sospettato. Era un tono che aveva pretesa d’imporsi, dominante. Deformazione professionale, forse. Magari uno sbirro dopo un po' di anni parla sempre così.
O forse no.
La morte è solo la fine della vita, non c'è niente dopo. Di un uomo resta solo una carcassa repellente. E il modo in cui sa morire. Questo è tutto.
-Vaffanculo.- risolse Sonny.
Risolse, perché non era rivolto a nessuno.
Un intercalare nervoso.
Qualcosa come una premessa a…
-Non ho qui altre sigarette.-
E abbassò l'arma, che divenne in meno di un secondo totalmente secondaria.
Un giocattolo tra le mani.
-Muovi il culo.- sentenziò, e di nuovo, la pistola ormai leggera tra le mani, gl'indicò la direzione alle proprie spalle.
Il poliziotto inclinò appena la testa di lato, aggrottando leggermente la fronte, sulla quale di disegnarono per un attimo due rughe verticali.
Si mosse nella direzione che gli aveva indicato Norton.
Norton gli stette dietro, stessa distanza.
E cominciò a riempire il vuoto della palude con piccole lamentele.
-Possibile, cazzo, dimenticarsi le sigarette…-
Reynolds camminava per la palude con addosso un curioso senso di irrealtà. Si era talmente preparato alla morte da sentirsi quasi a disagio ora che era rimasto vivo. Vivo per quanto, poi? Non ne aveva idea. Probabilmente fino a quando al bamboccio non fossero spuntate le palle. Magari ci sarebbero voluti trenta minuti e mezza bottiglia di bourbon, magari ci sarebbero voluti anni.
Non è facile ammazzare un uomo a sangue freddo guardandolo negli occhi e aveva capito perché l’amico del negro gli aveva dato tutti quei consigli su come farlo all'inizio. O lo fai subito o non lo fai più.
Comunque aveva tempo. Altro tempo per cercare una via di fuga, per tornare alla centrale, possibilmente col negretto al seguito.
-Ma che cazzo gli è saltato in mente ai coloni di venire qui…-
Stranamente, la palude aveva mantenuto il suo aspetto piacevole. Forse quello che dicono è vero: dopo aver visto la morte in faccia si apprezza la vita ancora di più.
… E un acquitrino putrido può diventare bellissimo. Reynolds aggiunse questa chiosa alla massima.
-Ma poi se vivi qui come cazzo fai a fumare? Che schifo, ho persino il collo umido di questa merda!-
Giunsero alla roulotte. se la trovarono davanti quasi all'improvviso dopo una svolta, nel mezzo di una specie di radura fangosa tra le mangrovie e le canne d'India.
Reynolds vi si diresse risolutamente, sentiva i passi dell'altro alle spalle, sempre troppo lontani per tentare qualcosa.
Un leggero rumore metallico attirò l'attenzione del poliziotto. Norton aveva stretto più forte l'arma, aggiungendo alla presa anche la seconda mano, e si stava avvicinando.
-Contro la parete, sbirro del cazzo! Quella cazzo di faccia sul muro!-
Un ringhio nervoso, ancora carico della tensione di poco prima.
-Fermati così!-
Lo fece mettere faccia al muro a circa un metro dalla porta, in modo da poter aprire tenendolo sotto tiro.
L'altro riconobbe la procedura. Obbedì in silenzio. Non era il momento di tentare una fuga, un bamboccio nervoso tende a parare con fastidiosa facilità.
Sonny si passò la pistola nella destra. Cominciava a pesare. Armeggiò con la sinistra finché non riuscì a piantare una chiave nella serratura arrugginita e a farla girare.
La porta si spalancò verso l'esterno con un lieve cigolio.
Il ragazzo si fece indietro di alcuni passi, riprese l'arma con due mani. -Dentro.-
Il poliziotto entrò lentamente, analizzando intanto l'interno della roulotte.
Mobilio fatiscente, sporcizia.
Disordine, roba buttata alla rinfusa. Vide bottiglie e lattine. Una radio sul tavolo.
Intanto Sonny era entrato. A due metri in rigida distanza, non si guardò neanche attorno.
-Letto a sinistra, per lo sbirro. Faccia in giù.-
Quello più annerito dallo sporco, se ce n'era uno più annerito.
Il letto, chiamiamolo così, era un sudicio materasso sintetico, che negli anni doveva aver assorbito ogni liquido biologico noto alla scienza.
Reynolds si distese, il volto verso Sonny.
-Faccia al muro. Non ve l'insegnano come regola base?-
Reynolds si voltò con un altro ringhio, un brontolio basso e minaccioso.
Prima che la sua gola potesse riassorbirne il suono, arrivò un colpo in mezzo alle scapole, e poi il peso, intero, dell'altro.
-Buono e fermo, ok?-
Le parole gli arrivarono con la coscienza di un mirino impigliato nella camicia.
Sonny gli spostò le braccia, un ginocchio sopra una delle due mani.
Poi, il tintinnio delle chiavi.
Gli strattonò il braccio con le manette, alzandoglielo fino alla spalla e, fermate queste nell'intelaiatura del letto, dopo un altro sta buono e di nuovo il mirino premuto sulla carne, sollevò l'altra mano.
Ammanettò, e tolse il proprio peso mettendosi in piedi.
-Sigaretta?-
-Ficcatela dove ti piace tanto, stronzo.-
Il viso ancora rivolto alla parete giallastra, Reynolds sentì un colpo alle reni.
Magari non perfetto.
Ma quanto bastava.
Ebbe un fremito di dolore e strinse i denti caparbiamente.
Sonny uscì dalla roulotte e rientrò un minuto dopo con una sigaretta fumante tra le labbra.
Collegò la radio, si sedette sugli scalini d’entrata, e cominciò a tirare lunghe boccate.
Reynolds si mosse lentamente, cercando di sistemarsi meglio sul materasso. Il dolore stava diventando più intenso, le ferite pulsavano ricordandogli senza alcuno sconto il pestaggio subito.
Ma se il corpo era intorpidito, la testa, al contrario, era lucidissima.
Fino a che la luce fu sufficiente, scrutò tutto quello che lo circondava, minuziosamente, cercando di imprimerselo nella memoria. Studiò accuratamente le manette, che gli legavano i polsi alla struttura metallica del letto. Cercò un punto debole, ma non riuscì a trovarlo. Strinse i denti.
Norton stava seduto appena fuori dalla porta, dal materasso si poteva vedere la sua sagoma farsi sempre più indistinta man mano che la sera scivolava nella notte. Stava fumando. Non aveva smesso un attimo da quando erano giunti lì.
Lo tenne d'occhio per un po', ma il ragazzo era immobile, a parte la mano che a cadenza regolare si sollevava per portare la sigaretta alle labbra.
La radio era un gracchiare fastidioso che stava venendo lentamente sopraffatto dai versi delle creature notturne.
Lex le avrebbe volentieri allungato un calcio per farla finalmente stare zitta, ma era sul tavolo, fuori dalla sua portata. E non c'era speranza che l'altro venisse a portarsela via. Dormiva. Era crollato sui gradini della roulotte.
Negro del cazzo.
Chiuse gli occhi cercando di prendere sonno a sua volta, e lì gli tornarono i ricordi lacrimevoli che aveva ricacciato indietro. Forse una volta evocati devono essere rivissuti, non possono rimanere lì in stand-by. Ripensò a quando era nei berretti verdi, a quante volte di era addormentato in una buca scavata nel fango in mezzo ad una palude e la colonna sonora era esattamente la stessa, a parte la radio con le sue assurde canzonette da negri.
Ripensò ad un sacco di cose.
Cose belle e meno belle, comunque brandelli di una vita che stava per salutare per sempre con la consapevolezza di non avere altro dopo.
Che bella prospettiva. Ma guardiamo negli occhi quella puttana con la falce.
Con un sospiro appoggiò finalmente la testa al materasso e scivolò nel sonno.