Diary

parte VII

di Katsushika


17 LUGLIO

Il fiume dalle parti del ponte della Freeway 50 non è niente di molto diverso da un canale artificiale, dalla forma volutamente contorta. L’acqua ha in molti punti una consistenza oleosa ed è punteggiata di piccoli relitti di carta, legno o plastica trasparente.

Ci passo buona parte del mio tempo, cioè tutto quello che non trascorro al parco o a dormire. Mi piace rimanermene seduto a guardare questo cielo troppo azzurro che ci si riflette dentro. Ci vengo a scrivere, a mangiare, ed ho scoperto che il solo fatto di starmene qui sulla riva riesce a farmi sentire tranquillo, la mente sgombra e in pace col mondo.

Per la prima volta da che sono a Sacramento, sto bene. Il corpo funziona ed il cervello con lui.

Roba di prima scelta, e mi sono rimasti soldi sufficienti per molto altro ancora.

E allora perché da ieri non riesco a star fermo in nessun posto, e pure qui, sull’argine, ho come una smania dentro che non riesco a calmare?

Forse perché ieri mattina, quando mi sono svegliato, Aaron non c’era più e l’unica cosa che mi veniva in mente era che volevo parlargli. Sì, parlare con lui, chiedere, spiegare. Semplicemente lo volevo ancora lì con me.

Ovunque guardassi, durante il giorno, se solo colori e taglia corrispondevano, non riuscivo a staccare gli occhi ed aspettavo, col cuore a mille, che il tizio si voltasse, per scoprire un volto diverso; non quel naso lungo e perfetto tanto da sembrare innaturale, non quelle sopracciglia ancora nere ed arcuate, che danno autorità a due occhi scuri e severi.

La notte poi è stata un’interminabile attesa, la speranza che si riaffacciava per venire subito delusa.

Come al solito aspetto che il tramonto si spenga. Mi piace godermelo qui, fra cemento ed acqua. Ogni sera i colori si combinano sempre diversi, a striare di oro e rosa la massa che lenta mi scorre di fronte. Ogni sera mi sorprende perché è bello ed è lì per tutti, senza distinzioni; mi sorprende perché nessuno si ferma come faccio io, a godere di questo spettacolo immenso e gratuito.

Una stupida, infantile parte di me continua a trattenermi dall’andare al parco, recalcitrante all’idea di accettare clienti che non saranno lui.

La notte arriva veloce a soffocare, inesorabile, gli ultimi bagliori all’orizzonte ed il cielo si riempie di un pesante marrone-viola, soffuso dall’arancio malato delle luci della città. E’ come se mi pesasse addosso, fino a rallentare i miei passi, fino a curvare le mie spalle mentre aspetto.

 

L’auto è una Ford Mustang, grigio chiaro, ormai vecchia, ma dignitosa, certamente discreta, tanto da rendersi invisibile nel traffico cittadino, ma io la riconoscerei fra mille.

Così, prima ancora di chinarmi ad indagare nel buio dell’abitacolo, so che cosa vedrò: il mio pensiero fisso, fasciato in un’impalpabile maglia grigia, solo di qualche tono più chiara dell’abito in lino, certamente di uno stilista italiano. Un’eleganza sobria, quasi austera, che si adatta così bene con la sua barba ed i suoi capelli corti e curatissimi, di un perfetto sale e pepe.

Salgo ed Aaron mi chiede se ho cenato, ed io devo ammettere che, perso nei miei pensieri, da due giorni mi tengo su con qualche sandwich e molte birre. Rispondo che ho voglia di cucina giapponese, ma  riconosco che in fondo lo dico solo per far bella figura, dato che mi sembra  tipo a cui quel genere di posti piace.

Lo vedo infatti annuire soddisfatto e quell’espressione gli rimane come sospesa sulle labbra, mentre giuda sicuro fra i boulevard semideserti.

Il ristorante è piccolo e pervaso da un’atmosfera molto più familiare di quanto mi aspettassi; ripensandoci, in fondo è anche logico che non avesse intenzione di fare il suo ingresso trionfale con me accanto in un lussuoso locale del centro, dove magari è cliente abituale.

Ordino quel che conosco e per il resto lascio fare a lui, che sembra sapere il menù a memoria; pure la pronuncia è perfetta, lo si capisce dall’espressione sorpresa ed ammirata dalla cameriera.

Risulta poi che è davvero un esperto, mi spiega i piatti e spesso li accompagna con qualche aneddoto sul Giappone, dove ha vissuto diversi anni. Come tanti piccoli stralci da un romanzo ben scritto, racconta con tono pacato e coinvolgente scene quotidiane, impressioni, emozioni di viaggio. Non c’è vanteria, solo un naturale piacere nella condivisione, ed io ascolto incantato, e mi ritrovo là con lui. Cerco di fare del mio meglio, alcune cose le ho lette su quel paese e le dico, e allora ricompare quella specie di sorriso, che è più che altro una luce attenta e compiaciuta nei suoi occhi, che mi scalda.

Le domande che mi rivolge sono precise, ma non invadenti, così nel giro di poche ore finisco per raccontagli di tutto: mia madre, il periodo d’oro con Angel a Reno, l’esame per il diploma al centro di disintossicazione Crown, le città che ho conosciuto, le ore rintanato nelle biblioteche pubbliche, specialmente in inverno.

Per quel che ne so, potrebbe indifferentemente essere un poliziotto o un serial killer, ma il modo in cui mi fa sentire lo rende speciale. Assurdo a dirsi, ma mi fido di lui, dell’interesse che mi dimostra; forse sono semplicemente travolto dall’emozione di una vera conversazione così lunga e partecipe. E’ da tanto che non mi succede di parlare veramente, o forse non mi è mai capitato.

Continuiamo a chiacchierare di tanto in tanto, anche in auto, e solo quando ci ritroviamo in camera tra noi cala uno strano silenzio. Non lo si può definire imbarazzo questa strana tensione che, è chiaro, sentiamo tutti e due; è più la sensazione che qualcosa è cambiato, che per qualche ragione è tutto diverso dalle altre volte.

C’è questa agitazione che mi cresce dentro, così - dato che non riesco a spiccicar parola - mi allontano un poco da lui, quel tanto che serve per buttare il giubbotto su una delle sedie addossate al muro.

Aaron è rimasto al centro della stanza, non parla e non si muove, ed io - per darmi il tempo di calmarmi - mi metto ad accendere le lampade sui comodini, perché so che lui vuole così.

E’ tutto inutile, il cuore è come un tamburo dal ritmo sempre più accelerato, ed  il suo battito è talmente forte che ho quasi paura che pure Aaron lo possa sentire. Mentre gli torno di fronte, tutte le frasi, le domande che gli ho rivolto nella mia testa in questi giorni d’assenza si sovrappongono e si confondono, spingono per uscire, ma così facendo si bloccano la strada a vicenda ed io resto muto.

Dopo istanti che sembrano interminabili, mi decido a fissarlo negli occhi. Mi ci perdo, sono così profondi e ardenti. Un posto caldo ed accogliente in cui rifugiarsi.

Sento appena il tocco della sua mano sulla guancia, il pollice che percorre lento lo zigomo e poi scende a seguire la linea delle mie labbra. Istintivamente le schiudo e mi faccio più vicino. Come una ragazzina chiudo gli occhi mentre lo sento serrarmi fra le sue braccia e tuffarsi nella mia bocca.

Non desideravo altro, e quasi con disperazione mi abbandono al suo bacio, lascio che la sua lingua mi esplori e ricambio con tutta l’energia che ho. Mi aggrappo a lui, lo abbraccio convulsamente, mentre litigo con la sua giacca ed i bottoni della mia camicia. Voglio la sua pelle sulla mia e quando crolliamo su letto, senza più la barriera dei vestiti, parto alla carica. Baci, carezze, morsi ovunque riesca ad arrivare, perché davvero non ho mai desiderato qualcuno come desidero lui adesso.

Dopo i primi momenti dal mio “attacco”, ridendo sommessamente, Aaron riesce a bloccami supino con un gesto fluido, e resta così a guardarmi, le braccia tese ad inchiodarmi al materasso, in attesa che mi calmi un po’.

Io mi inarco a cercare ancora inutilmente la sua bocca, e le sue mani allora cominciano a percorrere la mia schiena, tracciano solchi lungo la colona vertebrale per tutta la sua lunghezza, mandando in fiamme la mia pelle ed il mio sesso. Poi sfiorano lievi le scapole e piccoli brividi nascono dai suoi polpastrelli e mi strappano un sospiro decisamente indecente.

Mi abbandono lentamente sul lenzuolo fresco e lui scivola con le mani sulle mie braccia e stringe forte fino a far guizzare i muscoli. Ad occhi chiusi lo sento planare sul mio petto, i palmi caldi dalle clavicole all’arco delle costole,  a scavare, strusciare, stringere esattamente come io voglio che scavi, strusci e stringa, e proprio non riesco a trattenermi dal mugolare.

Arriva sotto l’ombelico e comincia a sfiorare, lentissimo, la pelle tenera e tesa del bacino. Tocchi leggeri, in cerchi concentrici, allontanandosi sempre più dal  mio cazzo, che vibra e si tende, in cerca delle attenzioni che continua a negargli.

Alla fine poggia le mani sui miei fianchi, quasi distrattamente, ma tanto basta a farmi rabbrividire.

D’istinto, fletto ed allargo le gambe, offrendomi, perché quella presa è sufficiente a dire che non sarà certo lui a piegarsi pur di ricevere piacere.

Mi sporgo di nuovo e finalmente riesco a riprendere possesso della sua bocca, mentre la mia mano si chiude sul suo arnese, dritto ed ingolfato quanto il mio.

Lui ricambia la cortesia e mentre la sua mano comincia a muoversi, si sposta lievemente sul fianco, giusto per dare ad entrambi lo spazio di manovra necessario.

Cerca ancora la mia bocca, ci baciamo, ci divoriamo a vicenda, come se questa fosse l’unica possibilità per sfamarsi, per dissetarsi.

Dopo i primi gesti scomposti, adesso lavoriamo con l’identico ritmo, lanciati in un inseguimento di cui entrambi bramiamo il traguardo.

E mentre la sue presa aumenta, così come la velocità, quelli che sento uscire dalla mia gola sono veri e propri rantoli, che disperati annunciano la resa.

Col senno di poi forse riuscirò a capire perché queste sensazioni mi stiano travolgendo, come se il mio corpo avesse perso memoria di tutto quello che c’è stato prima di lui. E’ tutto nuovo e splendente, anch’io sono nuovo mentre tremo e mi tendo, mentre balbetto in ogni gemito il suo nome - perché in questo momento, prima che l’ultima, grande onda mi sommerga, cerco i suoi occhi e ci trovo tutto ciò di cui ho bisogno.

Assurdo, ma niente è paragonabile a questo, non ho più parametri, non ho più ricordi.

L’unica realtà è il benessere assoluto in cui mi chiudo, per cercare di far sì che non finisca.

Le sue mani ed il suo sguardo mi cercano ancora, come a rassicurare della loro presenza.

Ma io voglio di più, voglio dargli di più, voglio dargli tutto quello che posso.

Tutto quello che ho.

 

18 LUGLIO

E’ giorno fatto quando mi sveglio nel suo abbraccio. Mentre immobile ascolto il suo respiro, riesco solo a pensare che è stato bello, unico, per mille, piccoli motivi diversi.

Mi viene in mente una frase, pescata in un libro di aforismi : “Il problema non è quando desideri far l’amore con qualcuno, ma quando desideri dormirci insieme!”

So già che di Aaron rimpiangerò proprio questo: una sensazione calda ed avvolgente, la tranquillità e la pienezza che mi trasmette anche solo col suo corpo abbandonato contro il mio.

Da quando s’è svegliato non abbiamo parlato un granché - semplici comunicazioni di servizio - ed anche adesso, mentre facciamo colazione, ognuno è perso nei suoi pensieri.

Abbiamo praticamente finito, i soldi già sul tavolo, quando lui, come a conclusione di un discorso con se stesso, mi dice che deve fare alcune commissioni, ma che se mi va di accompagnarlo poi si potrà pranzare insieme.

Io dentro esulto, ma gli rispondo solo con un abbozzo di sorriso. Siamo pur sempre in un locale pubblico, penso non gradirebbe affatto manifestazioni più plateali.

Alla prima sosta, in una stazione di servizio, mi manda allo store annesso con una breve ed eccentrica lista della spesa; mi dice anche di aggiungerci qualcosa da leggere mentre l’aspetto in auto, ed un paio di occhiali da sole, perché è palese che la luce trasparente del mattino californiano proprio non la reggo.

Come annunciato passiamo parecchie ore muovendoci da un capo all’altro della città. Certe volte resta in macchina con me per delle buone mezz’ore, altre scende e risale nel giro di pochi minuti.

Io mi guardo bene dal chiedere spiegazioni o dal fissare troppo a lungo i posti in cui entra ed esce.

Ora che è di nuovo sul sedile accanto, mi volto a guardarlo e lo vedo rilassarsi per la prima volta nella giornata, le rughe più distese, così sorrido, sperando che mi parli.

“Che cosa stai leggendo?”, mi chiede appena intercetta i miei occhi.

“In realtà son così giù d'umore che questo bell'edificio, la terra, mi sembra un promontorio sterile, questa volta d'aria stupenda, non è vero?, quello straordinario firmamento lassù, quel tetto maestoso trapunto di fuochi d'oro, ebbene a me non pare che una massa lurida e pestifera di vapori. Che opera d'arte è l'uomo, com'è nobile nella sua ragione, infinito nelle sue capacità, nella forma e nel muoversi esatto e ammirevole, come somiglia a un angelo nell'agire, a un dio nell'intendere: la beltà del mondo, la perfezione tra gli animali - eppure, per me, cos'è questa quintessenza di polvere? L'uomo non ha incanto …”, declamo lento.

Appena mi interrompo lo sento esplodere in una risata, alta e piena, che lo fa sussultare e rovesciare la testa indietro. Poi scuote il capo ed allunga la mano a scompigliarmi i capelli.

“Amleto! Stai leggendo l’Amleto!”, e la sua voce vibra di divertita tenerezza. “E l’hai comprato alla stazione di benzina! Per Dio, Miki, sei incredibile! Riesci a sorprendermi. Riesci sempre a sorprendermi!” E’ quasi in un sussurro, e quello che leggo sulla sua faccia è affetto ed una qual certa ammirazione.

“Il libro era un po’ rovinato, ma mi andava di rileggerlo…”, riesco a rispondere, incespicando su parole e pensieri che mi porterebbero a dire altro.

Forse troppo.