dedico questa fic a tutte le ragazze che mi hanno fatto i complimenti, per la mia ultima original. spero che questa vi possa piacere altrettanto!

 


A better life

capitolo 1

di Rikku19

 

Erano i primi anni novanta.
Era il maggio del 1994.
Noi tutti, quindicenni esaltati, arrabbiati con la vita e con il mondo, vestivamo solo di nero, ormai da più di un mese.
Era morto Kurt Cobain.
Non c’erano parole per descrivere noi stessi in quella situazione.
Ci atteggiavamo da grandi, ma eravamo ancora bambini.
Quella musica ci aveva dato un nuovo spiraglio di vita, ci aveva fatto credere che potessimo essere qualcun altro, oltre ai bravi bambini di Staten Island, con i capelli a caschetto e il vestito della domenica, destinati a una vita mediocre e perbenista.
La verità è che quelle canzoni noi non le capivamo nemmeno, era solo un modo per ribellarsi, così come i nostri genitori si erano ribellati ai loro ascoltando i Rolling Stones.
E, nel nostro dolore, dolore apparente, avevamo continuato la vita come se nulla fosse.
Jamie era rimasta incinta.
Louis si era trasferito in Arizona con i nonni.
Cole, il figlio del pastore, era stato spedito in un ospedale psichiatrico, perché si era fatto un tatuaggio con una donna nuda.
E io avevo capito di essere omosessuale.

Una sera di quel Maggio 1994, dissi a Rachel, la mia giovane e bellissima madre che sarei uscito con amici per festeggiare il mio compleanno.
Presi il traghetto, diretto a Manhattan.
Volevo capire e volevo sapere, che cosa non lo capisco neppure adesso, dopo più di 10 anni.
Mi cambia in un bagno pubblico, tolsi i vesti neri, ormai logori e sudici, e indossai dei jeans troppo strappati, troppo stretti, troppo lunghi.
Era come si vociferava dalle mie parti, un locale senza insegne luminose, sulla settantaduesima, un’insegna in ferro battuto all’ingresso: HOT.
Mia madre diceva che era “piuttosto sconveniente” farsi vedere in un locale simile.
Di quel genere di locali “piuttosto sconvenienti” ce n’erano anche dalle mie parti, ma quello era “assolutamente sconveniente”
Rachel, mia madre, utilizzava la frase “piuttosto sconveniente” quando io intendevo “ fare una figura di merda”.
E tutti quei “piuttosto sconveniente” per una che a quattordici anni era rimasta incinta da uno zio spostato con famiglia, risultavano mortalmente ridicoli.
Sospirai, ed entrai.
C’erano solo uomini, alcuni che si baciavano, anche in là con l’età.
Presi posto su uno sgabello al bancone, un bel bancone di mogano lucido, dall’aria solida.
Avevo bisogno di vedere qualcosa di solido a cui aggrapparmi, con tutta la confusione che mi circolava in testa.
“ciao dolcezza che ti porto?”
Un ragazzo sui 30, dietro al bancone, pantaloni di pelle, di bell’aspetto, niente a che vedere con Selma, la sessantenne portoricana grassoccia dello Staten Bar, proprio dietro casa mia.
“uh… una Vodka”
“quanti anni hai?”
“ne compio oggi ventuno” in realtà quel giorno ne compivo quindici.
“auguri”
Sorrise.
“grazie”
Sorrisi.
Mi portò un the freddo in un boccale di birra.

Era quasi mezzanotte.
Ancora mezz’ora e sarei dovuto rientrare.
Come Cenerentola, ma senza principe e senza carrozza.
Entrò un ragazzo sui 25, forse 26.
Bello, bello da morire.
Beh, forse non in senso convenzionale, aveva il naso troppo affilato e i lineamenti troppo spigolosi per essere considerato bello.
Ma a me pareva bello, bello da morire.
Portava gli occhiali da sole, un berretto dei Lakers sopra i lunghi capelli biondi.
La sua giacca di pelle strisciava lungo il pavimento.
Con passo deciso si sedette accanto a me.
“ciao. Io sono David. Dave, per te” mi disse
Si tolse gli occhiali da sole.
L’avevo già visto in tv.
Aveva una parte in uno show televisivo, per cui andava matta Rachel.
Mia madre diventava matta per lui.
Aveva anche una poster regalo in un giornale con su scritto “David Applegate”
Era bello, bello da morire, anche senza trucco, con le occhiaie, e anche, a quanto pareva, completamente ubriaco.
“Shane… mi chiamo Shane”
“Shane…” mi piaceva sentire il mio nome in quella voce impastata dall’alcol, roca e sensuale.
“Shane… vieni spesso qui?”
Scossi la testa.
“questa è la mia prima volta” risposi
“vorresti avere la tua prima volta con me?”
Non so, come lo avesse capito, forse avevo l’aria del verginello spaurito, nonostante cercassi di atteggiarmi da grand’uomo vissuto.
O forse, come mi dicevano tutti, dimostravo meno della mia età per via di quell’aria da santarellino che avevo.
E, per dio, diciamocelo: quell’aria ce l’ho ancora.
“allora, Shane… vuoi venire con me?”
Mi porse la mano.
La strinsi.
Mi trascinò in un angolo, c’era una porta scorrevole.
Il cesso.
Stavo per scoparmi David Applegate in un cesso.
Peggio: stavo perdendo la mia verginità in un cesso il giorno del mio quindicesimo compleanno.
Non di quelli eleganti, non di quelli con gli asciugamani soffici che ancora sanno di ammorbidente, un putrido, piccolo cesso di un locale.
Però ero con David Applegate, e il gioco valeva la candela.
Ero eccitato e terrorizzato alla sola idea.
E, a quanto vedevo, lui era solo eccitato.
Chiuse la porta a chiave.
Mi abbassò i pantaloni alle caviglie.
Mi inumidì con del sapone liquido da due soldi.
Mi fece appoggiare le braccia al muro.
E mi scopò, lì, nel cesso squallido di un bar “piuttosto sconveniente”
E quello che mi stava facendo era “assolutamente sconveniente”
E faceva maledettamente male.
Non ero eccitato, lui sì, e a quanto pareva, gradiva la mia presenza.
Mi morsi la lingua per non mettermi a piangere.
Avevo gettato via tutto per una bella faccia senza cuore.
O forse, solo una balla faccia con un grave problema d’alcolismo.
Il che, a pensarci bene, era anche peggio.
Venne.
E quello che fece superò i miei più intimi timori.
Mentre il suo seme colpiva le mie pareti, qualcosa di altrettanto fluido colpì la mia schiena.
Mi staccai immediatamente, ma il danno era fatto.
Il vomito aveva macchiato la mia bella maglietta rossa e parte dei miei jeans troppo strappati, troppo stretti e troppo lunghi.
Presi la borsa per mettere i miei vestiti neri, quelli comuni, e ordinari, non quelli speciali, non quelli macchiati di vomito.
Lo salutai con un cenno, era inginocchiato sul pavimento.
“ciao, Sean… Shane… o qualunque sia il tuo nome…”
Mi sorrise.
E immediatamente ricominciò a rigurgitare.
Lo lasciai lì, sul pavimento.
E mentre ero sul taxi che mi riportava a casa, non potei fare a meno di pensare che David Applegate era bello, bello da morire anche mentre vomitava.